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Roma. Giornata Mondiale dei Poveri 2018: la Chiesa e le sue ipocrisie

Da un lato si auspica una generosità quasi sovrumana. Dall’altro, si va a braccetto coi potenti

“Questo povero grida e il Signore lo ascolta”.

Suona così, il tema che è stato prescelto quest’anno per la Giornata Mondiale dei Poveri. Che si celebrerà domani a Roma e che è giunta alla sua seconda edizione, dopo che Papa Francesco decise di istituirla sull’onda del Giubileo della Misericordia, svoltosi a cavallo tra il 2015 e il 2016.

Più che sul piano metafisico, però, il richiamo al ‘Signore’ vale in ambito umano. A dover prestare ascolto ai poveri che chiedono aiuto sono i cristiani. Che avendo il compito di realizzare sulla Terra i dettami divini (dando per buono, si capisce, che le Sacre Scritture siano davvero la ‘parola di Dio’) sono chiamati a passare dalla carità occasionale a una generosità costante. Che certamente si dovrà manifestare in atti concreti, ma che richiede un coinvolgimento più profondo. E più difficile da raggiungere.

Nel breve scritto che presenta l’iniziativa la si definisce “la dimensione della reciprocità”. Non solo e non tanto, quindi, la ‘normale’ solidarietà nei confronti di chi versa in uno stato di grave bisogno materiale, ma qualcosa di molto più ampio. E di molto più impegnativo. L’idea è che quella che andrebbe instaurata non sia una relazione a senso unico, per cui c’è una parte che dà e un’altra che riceve, ma che a partire dalla condizione di bisogno dell’uno si attivi un avvicinamento condiviso.

Il logo della Giornata ha questo significato: “Si nota una porta aperta e sul ciglio si ritrovano due persone. Ambedue tendono la mano; una perché chiede aiuto, l’altra perché intende offrirlo. In effetti, è difficile comprendere chi tra i due sia il vero povero. O meglio, ambedue sono poveri. Chi tende la mano per entrare chiede condivisione; chi tende la mano per aiutare è invitato a uscire per condividere. Sono due mani tese che si incontrano dove ognuna offre qualcosa. Due braccia che esprimono solidarietà e che provocano a non rimanere sulla soglia, ma ad andare incontro all’altro”.

Tutto bene, allora?

No, per niente.

Quante ipocrisie, nella Chiesa

La domanda che andrebbe posta al Papa, e alle alte gerarchie vaticane che lo affiancano, è come questo tipo di atteggiamento possa coesistere con il modello sociale ed economico che domina gran parte del mondo contemporaneo. A cominciare dall’Occidente. E, più in particolare, dall’Europa. Quell’Europa in cui il Cristianesimo si è storicamente affermato e in cui tuttora ha la sua massima sede istituzionale. Il Vaticano, appunto.

In linea di principio la questione è di un nitore abbagliante: i fondamenti etico-religiosi della Chiesa non hanno nulla a che spartire con quelli del capitalismo e del liberismo. A meno di non mentire a sé stessi, e agli altri, nessuno che aderisca davvero alle concezioni cristiane può riconoscersi anche nelle linee guida della società odierna. Diciamolo in maniera ancora più esplicita: non è proprio possibile proclamarsi cristiani e poi, fosse pure nel solo ambito del lavoro, mettersi al servizio di scopi prettamente lucrativi.

La Chiesa, se avesse una briciola di coerenza (e se davvero si fosse liberata della sua antichissima propensione al potere temporale), dovrebbe fare terra bruciata intorno ai falsi cristiani. Dovrebbe additarli nel modo più esplicito, affinché gli eventuali distratti non abbiano alcuna possibilità di rifugiarsi nell’ipocrisia degli ‘uh, non ce ne eravamo accorti’. Dovrebbe metterli di fronte al più reciso e inderogabile degli aut-aut: o con Dio o con Mammona. O dentro la comunità dei credenti, oppure fuori. E fuori, naturalmente, significa la scomunica.

Se lo chieda Lei, Papa Francesco

Sono queste enormi contraddizioni – che si trascinano da troppo tempo per poter essere ignorate o ridotte a semplici sviste – a rendere impossibile una valutazione acritica di iniziative come quella di domani. Le parole che abbiamo citato fanno appello, per l’ennesima volta, a un’estrema generosità. Anzi, a una generosità nei confronti degli altri che presuppone una pulizia interiore quasi sovrumana. Una filantropia che è in effetti la conseguenza, il riverbero, di un affrancamento pressoché definitivo dalle tentazioni della materialità. E addirittura, cosa ancora più impervia, da quelle dell’ego.

Nel suo messaggio, Papa Francesco definisce “benedette le mani che si aprono ad accogliere i poveri e a soccorrerli”. E prosegue: “sono mani che portano speranza. Benedette le mani che superano ogni barriera di cultura, di religione e di nazionalità versando olio di consolazione sulle piaghe dell’umanità. Benedette le mani che si aprono senza chiedere nulla in cambio, senza ‘se’, senza ‘però’ e senza ‘forse’: sono mani che fanno scendere sui fratelli la benedizione di Dio”.

Una cortesia, Santità: quando incontra i potenti che la vengono a ossequiare, si chieda se le loro mani sono benedette anch’esse. E se non lo sono – visto che non lo sono – si domandi se sia il caso di continuare a stringerle.

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