La ferita del nazismo e il suo valore di insegnamento per il mondo attuale
L’epoca d’oro della cultura tedesca, è possibile affermare, con nettezza e sicurezza, che abbia niente a che fare con la cultura e le pratiche del nazismo

Karl Kraus, scrittore austriaco, rimase sconvolto dalla violenza inaudita del nazismo contro ebrei e oppositori al regime
Riflettere sulla cultura tedesca e sul ruolo della Germania nella storia europea, significa – inevitabilmente – pensare il rapporto tra identità tedesca e nazismo. È vero, come ha scritto Claudio Magris in “Danubio” (1986, Garzanti), che sono durati dodici anni, “meno della mia vecchia giacca a vento che porto di solito in gita” (p. 169), afferma il celebre critico e germanista. Ma quella manciata di anni ha prodotto – in termini di ferocia, morte e crudeltà – qualcosa di unico, rispetto a tutte le epoche della storia passata.
Nell’appendice al suo grande libro – “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (1963, ed. it. Feltrinelli) – Hannah Arendt fa un’affermazione decisiva. Ossia, che la storia umana ed europea – l’antichità classica in primis – brulica di stragi. Ma ciò che rende la Shoah un caso unico, di fronte a qualsiasi epoca storica, è la dimensione burocratica e industriale dello sterminio.
Di questa dimensione, Eichmann è il simbolo, l’emblema. Di un’intera epoca della cultura tedesca, che aveva sognato la volontà di potenza e il super-uomo, per poi ritrovarsi con le mani lorde di sangue e un’infinita voglia di stragi.
Così, procedendo a ritroso, “a passo di gambero”, ci soffermeremo su alcuni aspetti della storia e dell’identità tedesca, sempre in rapporto a quegli anni terribili – tra il 1933 e il 1945 – durante i quali, come scrisse Karl Kraus per la Prima guerra mondiale, “personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità”.
Il secondo dopoguerra
A catastrofe avvenuta, due grandi tedeschi, fanno sentire – forte e chiara – la propria voce. Thomas Mann con il “Doktor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico” (ed. it. Mondadori) del 1947 – nonché con gli scritti politici dello stesso periodo – e Karl Jaspers con “La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania” (1946, ed. it. Raffaello Cortina).
C’è nell’aria la sensazione che sia avvenuto qualcosa di enorme, che un limite invalicabile sia stato oltrepassato una volta per tutte.
Il pensiero di Jaspers alimenta quello di Hannah Arendt, che dedicherà al nazismo due delle sue opere più significative: “Le origini del totalitarismo” (ed. it. Einaudi) del 1951 e “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, cui sopra si accennava.
L’ispirazione di Jaspers è fondamentale, per Arendt, sotto questo punto di vista: mentre Heidegger – l’altro grande maestro di Arendt – è lontano dal poter vivere la politica come una dimensione fondamentale del suo pensiero e la sua disavventura con il nazismo lo dimostra; Jaspers, seppure meno radicale di Heidegger sul terreno della speculazione pura, sente in modo vibrante la dimensione della politica, come costitutiva dell’agire e del pensare degli uomini.
Nello stesso periodo, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, dal loro esilio americano, danno alla luce la “Dialettica dell’illuminismo” (1947, ed. it. Einaudi), il cui penultimo capitolo – intitolato “Elementi dell’antisemitismo” – dà conto della tragedia appena avvenuta.
Intanto, una figura di riferimento, un maestro come Walter Benjamin era venuto a mancare nel 1940, suicida sul confine franco-spagnolo, lasciando dietro di sé, come sua ultima traccia, le cruciali tesi “Sul concetto di storia” (ed. it. Einaudi), cariche di inquietudine per le “ombre corte” che pesavano sull’Europa e sul mondo.
Nel 1951, Adorno dà alle stampe uno dei suoi capolavori, la raccolta di aforismi dal titolo “Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa” (ed. it. Einaudi) e la dedica a Max Horkheimer. Si tratta di un grido lancinante e disperato sulla vita che “non vive”, in cui la civiltà è ridotta ai minimi termini, in cui la morte sembra aver trionfato su tutta la linea. La prova stilistica è sovrana e la magia della prosa restituisce la speranza in una dimensione di redenzione che si intravede, pur se solo in lontananza.
Herbert Marcuse e Jürgen Habermas daranno lustro ulteriore a questo grande dibattito, in cui la cultura tedesca si interroga sul proprio presente e su di un eventuale futuro.
Lo sguardo deformante della satira
Sul piano letterario, due opere devono essere ricordate e meditate. La “Trilogia di Danzica” di Günter Grass, il cui primo volume è formato dal celebre “Il tamburo di latta” (ed. it. Feltrinelli) del 1959, cui seguono “Gatto e topo” del 1961 e “Anni di cani” del 1963, pubblicati in italiano sempre da Feltrinelli.
La lezione di Grass è importante sotto questo punto di vista. Con una narrativa ironica, giocosa e picaresca, Grass dimostra che al tema della Shoah e della responsabilità politica della Germania ci si può accostare anche con leggerezza ed ironia.
Attraverso lo sguardo deformante di un bambino, nano e matto, innamorato del suo tamburo, la tragedia di quegli anni viene distorta, deformata, ossia le viene restituito quel velo di candore e di purezza, caratteristici dell’infanzia.
L’altra grande opera da ricordare è il pamphlet di Karl Kraus contro il nazismo, dal titolo “La terza notte di Valpurga” (ed. it. Editori Riuniti). Composto nel 1933, ma pubblicato postumo, esso è carico di tutta la furia satirica di cui Kraus è capace. Basti ricordare due elementi. Il primo è il celebre incipit, che suona: “Su Hitler non mi viene in mente niente” (trad. it. di P. Sorge).
Il secondo è che, come ha notato Jonathan Franzen nel “Progetto Kraus” (ed. it. Einaudi), l’opera di Kraus è la dimostrazione che era possibile accorgersi fin da subito di ciò che era il nazismo e di quello di che i nazisti avevano cominciato a mettere in atto.
A ritroso nel tempo
Come abbiamo visto, sia pur rapidamente, la tragedia del nazismo condiziona e determina la cultura tedesca dei decenni successivi. Ma in che modo, la cultura tedesca dei decenni e dei secoli precedenti il 1933, può aver contribuito alla creazione di quel monstrum che il nazismo fu?
Per quanto riguarda l’epoca d’oro della cultura tedesca – quel periodo che può essere fatto cominciare con la nascita di Leibniz, nel 1646, e che può considerarsi concluso con la morte di Goethe, nel 1832 – è possibile affermare, con nettezza e sicurezza, che niente che abbia a che fare con la cultura e le pratiche del nazismo, la sfiori anche solo da lontano.
Non Leibniz e Kant, non Hegel e non Beethoven, per non parlare della dolcezza sognante e della lucidità di Goethe, hanno nulla in comune con i deliri, carichi di sangue e morte, dell’hitlerismo.
Il problema inizia a sorgere con i nomi di Bismarck, Wagner e Nietzsche. Solo in questo momento, nella seconda metà dell’Ottocento, la Germania inizia a sognare sul piano della potenza. Ma, se pure il nazionalismo di Bismarck e le occasionali brutalità di Wagner e Nietzsche, possono aver avuto un loro peso, la verità è che, negli anni in cui si prepara il terreno al nazismo, l’Europa brulica di razzismo e di voglia di soluzioni autoritarie e antidemocratiche – il fascismo italiano comincia la sua musica nefasta nel 1922 – che condurranno alla feroce soluzione del totalitarismo.
Non solo in Germania, ma anche nell’Unione Sovietica guidata da Stalin, in cui il quadro ideologico fu del tutto diverso, ma simili erano le modalità di governo e le pratiche del potere.
Conclusione
Qual è, dunque – si potrebbe domandare – la morale della favola? Quale insegnamento è possibile trarre da questa storia tanto drammatica e dolorosa, che costò all’Europa e al mondo diverse decine di milioni di morti? Abbiamo appreso qualcosa da quel passato? Non molto, sembrerebbe.
La terribile pestilenza della guerra tecnologica continua ad infuriare. Tra Russia e Ucraina. Tra Israele e Palestina. L’Occidente continua a percorrere strade autoritarie. Le persone – obnubilate dalla rivoluzione digitale – sono stanche della democrazia.
Quando è stato eletto nuovamente Trump alla Presidenza degli Stati Uniti d’America, mi è venuta alla mente una scena del “Gladiatore” (2000) di Ridley Scott. Due senatori parlano di Commodo, il figlio di Marco Aurelio, diventato da poco imperatore. Uno dice all’altro: “Lui porterà loro la morte e in cambio lo ameranno”. Ecco perché continuare a riflettere sull’incubo-Hitler può servire a qualcosa…