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Scuole occupate: o si fa sul serio, oppure è meglio lasciar perdere

Al liceo Tasso di Roma il preside promette il 6 in condotta agli studenti “ribelli”: una rappresaglia da operetta

Fanno davvero ridere, quelli che vorrebbero le occupazioni scolastiche “light”. Decise sì dagli studenti, senza il preventivo consenso del preside, ma poi portate avanti in un clima molto soft, di coesistenza pacifica con le autorità didattiche. Accettandone, di fatto, la supervisione. Che rappresenta il potere del mondo adulto e, per estensione, dell’establishment, dal governo in giù.

E fanno anche ridere, e pure loro in maniera tutt’altro che gioiosa, le raccomandazioni dei siti che si rivolgono specificamente ai ragazzi. Spiegando loro che – attenzione, bricconcelli! – non bisogna prendere sotto gamba un’iniziativa del genere. Sul sito studenti.it, per esempio, si legge questo bel fervorino: “Spesso gli studenti sottovalutano il significato di occupare una scuola e ne prendono parte con leggerezza. Ma cos’è l’occupazione della scuola? Gli studenti occupano gli edifici scolastici e interrompono le lezioni, non permettendo di fatto di entrare a tutto il personale scolastico e agli studenti che intendono fare lezione. Come si fa? Qui una guida che vi spiega tutti gli step per arrivare all’occupazione della scuola. Ma ci sono delle conseguenze penali? Cosa devono sapere gli studenti prima di iniziare questo tipo di protesta?”.

Quello che non va non è tanto il contenuto in sé. È l’intonazione. È appunto questa idea, questa pretesa, questa contraddizione in termini, che serpeggia tra le righe: l’idea che si possa – anzi che si debba – protestare con calma, con misura, con garbo. Con il permesso preventivo, o quantomeno con l’avallo tollerante, delle controparti.

Scuole occupate, ma non troppo

Lo scopo è preciso, pur guardandosi bene dal dirlo. È abituare i giovani a evitare lo scontro frontale con le autorità, siano esse di natura istituzionale o economica. Addomesticandoli in ambito scolastico, l’aspettativa è che poi si comporteranno allo stesso modo anche nella società. A cominciare dai posti di lavoro.

Capiamoci bene, allora. La questione da affrontare non è come occupare senza rischi legali la scuola, o la fabbrica, o qualsiasi altro spazio la cui proprietà sia di altri. Il nodo è la natura della contrapposizione. Finché si tratti di aspetti più o meno marginali, è chiaro che non c’è motivo di arrivare al conflitto: ci si siede intorno a un tavolo e se ne discute. A condizione però, e non è che lo si possa dare per scontato, che le due parti siano parimenti disposte a valutare le ragioni altrui.

Il che ci porta a un aspetto fondamentale: chi protesta lo fa a partire, per definizione, da uno stato subalterno. Come i lavoratori nei confronti dei proprietari. Come gli studenti nei confronti dei professori, del preside, del Ministero dell’Istruzione. Detto in maniera ancora più chiara, chi protesta lo fa perché non ha il potere di decidere. E quindi si ritrova a subire le decisioni di chi quel potere lo detiene.

I rapporti sociali, quando non ci sia una sostanziale condivisioni degli obiettivi da raggiungere, sono sempre dei rapporti di forza. Chi sta in cima comanda, e di regola lo fa innanzitutto a proprio vantaggio, mentre chi sta al di sotto deve ubbidire, e di regola non è che sia trattato benissimo.

Delle due l’una, perciò: o gli studenti sono convinti di avere delle istanze così importanti, e così inascoltate, da essere determinati ad affrontarne le conseguenze, oppure non lo sono. Nel primo caso è giusto che facciano ricorso a qualsiasi mezzo, e quindi che occupino le scuole e che siano pronti anche a farsi arrestare, pur di rendere visibili e perentorie le proprie battaglie. Nel secondo, lascino perdere le ‘occupazioni light’ e rimangano buoni buoni nei ranghi del “ci scusi, signor Preside, ma rispettosamente desidereremmo chiederle che”.

Chi si ribella per finta è persino peggio di chi non si ribella per niente.

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