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La lente ustoria della critica e le contraddizioni del presente

Goethe era perfettamente consapevole della sempre maggiore difficoltà dei rapporti umani, in termini di alienazione, in un’epoca come la nostra

Immanuel Kant nel ritratto di Johann Gottlieb Becker, 1768

Immanuel Kant nel ritratto di Johann Gottlieb Becker, 1768

La “Critica della ragion pratica” di Kant (1724-1804), pubblicata nel 1788, si conclude con un’immagine filosofica grandiosa, quella del cielo stellato sopra di me e della legge morale in me. È il momento in cui la cultura tedesca tocca l’apogeo e si solleva a un livello mondiale ed epocale.

Siamo un anno soltanto prima della Rivoluzione francese. Un aneddoto, probabilmente vero, narra che quando ricevette l’annuncio della proclamazione della repubblica a Parigi, Kant si alzò in piedi e intonò, con le lacrime agli occhi, il biblico Osanna di Simeone.

Nel 1781 era uscita la “Critica della ragion pura”, forse l’opera più decisiva del pensiero moderno. Nel 1790, Kant darà alla luce la terza Critica, quella relativa alla facoltà di giudizio. Sotto l’occhio vigile di Kant e di Goethe (1749-1832), i vari Fichte Schelling Hegel Schopenhauer scalpitavano come puledri, per mostrare al mondo le loro capacità.

Sulle spalle dei giganti

Tutto ciò sembra, apparentemente, lontano dall’epoca della bomba atomica e della rivoluzione digitale. Eppure, come fece notare Adorno in “Minima Moralia” (1951, ed. it. Einaudi, aforisma 16), Goethe era perfettamente consapevole della sempre maggiore difficoltà dei rapporti umani, in termini di alienazione, in un’epoca come la nostra.

Circa un ventennio prima, fu merito di Walter Benjamin portare alla luce e diffondere una lettera di Goethe a Zelter, del 1825, in cui l’occhio del poeta verso la società industriale nascente è lucidissimo e implacabile. Goethe vedeva arrivare un’epoca della velocità e della ricchezza, in cui la dimensione pratica la fa da padrone, togliendo spazio a qualsiasi forma di vita spirituale.

Per quanto riguarda Heidegger, è noto come – nella seconda fase del suo pensiero – egli utilizzasse la poesia e la parola di Hölderlin, come scandaglio da manovrare per illuminare le oscurità e gli arcani del mondo tecnico che lo circondava.

E saranno i grandi versi di “Patmos” di Hölderlin – “Ma là dove c’è il pericolo, cresce / Anche ciò che salva” (trad. it. di G. Vattimo) – a chiudere la leggendaria conferenza “La questione della tecnica”, che apre “Saggi e discorsi” del 1954.

Da Königsberg all’eternità

Si accennava, dunque, alla dimensione etica del pensiero di Kant e alla sua importanza in un’epoca come la nostra. Prima della “Critica” del 1788, Kant aveva dato alle stampe un altro libro ad argomento etico di cruciale importanza, la “Fondazione della metafisica dei costumi” del 1785.

In quest’opera, oltre alla formulazione classica dell’imperativo categorico, Kant enuncia la massima di un ulteriore imperativo etico. Affermando la necessità di trattare l’uomo e l’umanità in lui racchiusa, sempre come fine e mai soltanto come mezzo. Si tratta di un’affermazione che inscrive il pensiero di Kant nel solco della grande tradizione umanistica occidentale.

Nonostante i massacri della Storia, in principi di questo tipo l’uomo europeo ha creduto sempre. In una pagina della “Dialettica negativa” del 1966, opera di mirabile lucidità, visionarietà e vigore filosofico, Adorno ha commentato la celebre massima kantiana.

Scrive il filosofo: “La differenza di mezzi e fini, decisamente voluta da Kant, è sociale, è quella tra i soggetti in quanto merce forza-lavoro da cui si deve ricavare il valore e gli uomini che ancora come merce restano quei soggetti per i quali è stato avviato l’intero meccanismo, che li dimentica e che li soddisfa solo secondariamente. Senza questa prospettiva la variante dell’imperativo si perderebbe nel vuoto” (ed. it. Einaudi, p. 230).

Perché, dunque, si potrebbe domandare, quella di Kant sarebbe un’affermazione straordinaria? Oltre all’autorità e al peso naturalmente legati al nome di Kant – che fu un filosofo di straordinaria genialità, potenza teoretica e penetrazione critica – la sua importanza risiede nel fatto, che la sua formulazione si affaccia su un’epoca in cui l’uomo e l’umanità non saranno più al centro.

La tecnica e il capitalismo hanno vinto. Viviamo in un’epoca in cui lo sviluppo tecnologico ed economico hanno espropriato, sempre di più, l’uomo da sé stesso. Siamo diventati funzioni delle macchine e degli apparati da noi stessi creati. Nel tempo che ci vede esistere come uomini, il rovesciamento di mezzi e fini è completo. Ecco perché l’affermazione di Kant è tanto importante.

Da Francoforte con furore

Avvicinandoci di più al presente, sono stati principalmente i maestri della Scuola di Francoforte – T. W. Adorno (1903-1969) e M. Horkheimer (1895-1973) – a sviluppare il tema dell’umanesimo al tempo della tecnica e del capitalismo sfrenato.

In una dichiarazione programmatica all’inizio di quella che rimane la loro opera più grande – la “Dialettica dell’illuminismo” (1947, ed. it. Einaudi) – essi scrivono: “un pensiero critico che non si arresta neanche davanti al progresso esige oggi una presa di posizione in favore dei residui di libertà, delle tendenze verso un umanesimo reale, anche se questi sembrano impotenti di fronte alla grande dinamica storica” (Premessa all’ultima edizione tedesca (1969), p. XLV, corsivi miei). Ciò non soltanto perché gli uomini continuano a non imparare dalla storia passata e si pensi alla rielezione di Donald Trump negli Stati Uniti.

Ma, più in profondità, perché il senso dell’humanitas, di quel che di umano vi è nell’uomo – secondo la decisiva formulazione di Vasilij Grossman – è l’unica risposta possibile al dominio della tecnica, alla disumanizzazione della politica, alla ferocia della guerra tecnologica, all’imperversare del neo-liberismo in ogni dimensione delle nostre società.

Anche in “Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa” (1951, ed. it. Einaudi) di Adorno, la sua grande raccolta di aforismi – nonché uno dei libri in assoluto più belli di quel secolo disperato che è stato il Novecento – pensieri centrali come quelli di utopia e redenzione devono essere letti come l’aspirazione messianica a che la vita degli uomini sulla terra, torni ad assomigliare a quello che essa avrebbe sempre dovuto essere.

Una condizione di conciliazione e di pace perpetua – ancora Kant! – degli uomini tra loro e dell’uomo con la natura.

Verso il concreto

Andando alla ricerca di un autore capace di proseguire questa linea critica verso il nostro tempo e che, contemporaneamente, sia ancora più vicino a noi cronologicamente, abbiamo il caso di Elias Canetti (1905-1994). Tra gli ultimi grandi del filone mitteleuropeo di lingua tedesca, Canetti ha brillato in tutti i generi con cui si è confrontato: il romanzo, il teatro, il grande trattato, il saggio, l’autobiografia, l’aforisma.

Da questo punto di vista, non apparirà esagerato affermare che la sua raccolta di saggi “La coscienza delle parole” (ed. it. Adelphi) costituisce una miniera. Di intuizioni critiche, teoriche, di lampi abbaglianti di intelligenza che spiazzano e sbaragliano il lettore, che lo costringono ad uscire dal piccolo guscio delle sue ristrette certezze individuali.

Nel saggio “La missione dello scrittore. Discorso tenuto a Monaco di Baviera nel gennaio 1976”, aggiunto alla fine della raccolta per la sua seconda edizione del 1976, si trova una riflessione che io considero di importanza cruciale e che mi accompagna da sempre.

L’eventuale lettore mi scuserà per la sua lunghezza. Scrive Canetti: “In un mondo impostato sull’efficienza e sulla specializzazione, che altro non vede se non le vette a cui mirano tutti in una sorta di angusta tensione per la linearità, che indirizza ogni energia alla fredda solitudine di queste vette e invece disdegna e cancella le cose più vicine, il molteplice, l’autentico, tutto ciò che non serve ad arrivare in cima, in un mondo che sempre di più vieta la metamorfosi in quanto essa si pone in contrasto con il fine universale della produzione, che non esita a moltiplicare dissennatamente gli strumenti della propria autodistruzione e cerca nel contempo di soffocare quel poco che ancora l’uomo possiede delle qualità ereditate dagli antichi e che potrebbe servirgli a contrastare questa tendenza, in un mondo cosiffatto, che siamo inclini a definire il più cieco di tutti i mondi possibili, appare di un’importanza addirittura cruciale che alcune persone continuino malgrado tutto a esercitare questa capacità di metamorfosi” (p. 390).

Se è possibile, per una mente e una mano umane, costringere e racchiudere l’essenza del nostro tempo e della nostra epoca in una frase, è possibile dire che, in questo passo, Canetti è riuscito nell’impresa. Il suo compito è di risvegliare il senso della parola critica nelle dormienti coscienze contemporanee.