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Giorgio Manganelli e l’irresistibile tentazione della prosa

Egli abita un luogo al di là di pessimismo e ottimismo, al di là di destra e sinistra. Quel luogo è lo stesso della letteratura

Giorgio Manganelli

Giorgio Manganelli (Milano, 1922 – Roma, 1990)

Lo scrittore non è un animale onnivoro, un essere generico in grado di toccare tutti gli argomenti e, nello stesso tempo, nessuno (almeno non con l’esaustività dello specialista). Bensì un animale metafisico unico, in grado di scandagliare i nostri demoni e le nostre profondità abissali, che tutti possediamo, nascoste da qualche parte. Se ciò è vero, allora è possibile dire che Giorgio Manganelli (1922-1990) ha corrisposto a questa idea della letteratura, in modo unico.

Almeno per quanto concerne la storia della letteratura italiana degli ultimi cinquant’anni. Al pari di Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini, Natalia Ginzburg, Ennio Flaiano, Alberto Arbasino, Umberto Eco ed altri, egli ha incarnato, nel modo più alto e profondo, il senso del nostro essere storico di italiani.

Ultimo atto

Da giovane fece parte dell’ultima avanguardia significativa della nostra letteratura, il Gruppo 63, insieme ad Eco, Arbasino ed Edoardo Sanguineti. In un’Italia che viaggiava, allegra e sicura, verso la piena industrializzazione e l’istruzione di massa, egli comprese che il cuore sanguinante del Novecento, il pessimismo tragico di Heidegger e della Scuola di Francoforte, andava accompagnato alla porta.

Così nacque la prosa briosa e leggera di Arbasino, l’irresistibile umorismo dello Eco di “Diario Minimo”, il talentuoso virtuosismo stilistico di Manganelli. Se si paragonano questi testi al panorama attuale, al giallo di Camilleri, De Cataldo e Carofiglio, a Emanuele Trevi e Saviano, viene da piangere per l’insipienza cui è ridotta la nostra letteratura.

La magia della prosa

L’opera di Giorgio Manganelli può essere suddivisa in due tronconi. Da una parte, le opere di maggior impegno stilistico e speculativo: “Hilarotragoedia”, “Centuria”, “La notte”, “Pinocchio: un libro parallelo”. Libri in cui il virtuosismo stilistico è tale, da rendere quasi insondabile il messaggio.

Dall’altra, tutti quei libri che raccolgono prose brevi, tra cui rientrano gli scritti che Manganelli ha dedicato ai suoi viaggi: “Mammifero italiano”, “Improvvisi per macchina da scrivere”, “La favola pitagorica” (che contiene il sopraffino “Esiste Ascoli Piceno?”, ora anche in volume singolo, con disegni di Tullio Pericoli), “Viaggio in Africa”, “Esperimento con l’India”, “Cina e altri Orienti”. Questo solo per citare alcuni titoli, dell’uno e dell’altro filone (tutti pubblicati dall’editore Adelphi).

Poi c’è un libro come “Lunario dell’orfano sannita” (1973), che si trova all’incrocio tra i due filoni. Esso è formato da prose brevi, ovvero articoli, ma scelti e pubblicati da Manganelli stesso, come opera autonoma.

Un’epoca postuma

Se Manganelli si lascia alle spalle il pessimismo tragico della migliore cultura filosofica contemporanea – da Schopenhauer a Leopardi, da Nietzsche a Heidegger e alla Scuola di Francoforte – ciò non significa che egli sia un teorico modesto.

Se è vero che non ci sono in lui tracce di ideologia politica, né di destra né di sinistra, tuttavia la sua visione è lucida, tanto dal punto di vista esistenziale che sociale. Tanto lucida da metterci in imbarazzo. Il suo sguardo sulla fatica della condizione umana, non lascia adito a dubbi. Ma non avrebbe mai utilizzato il marxismo, nel modo in cui ne faceva uso Pasolini, negli stessi anni.

In Manganelli uno humour cosmico avvolge tutto, forse derivatogli dalla profonda conoscenza della letteratura in lingua inglese. Egli abita un luogo al di là di pessimismo e ottimismo, al di là di destra e sinistra. Quel luogo è, come tale, lo stesso della letteratura.

Tempi duri

Se c’è una definizione dell’arte, che un intellettuale dotato di sovrano senso dello stile come Calasso reputava cruciale, essa si trova nella terza parte di “Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa” di Adorno. Essa dice: “l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità” (aforisma 143, ed. it. Einaudi).

Ecco, Manganelli è stato tra gli ultimi scrittori della nostra letteratura, a saper ancora essere un supremo sacerdote del culto. Insieme a Leonardo Sciascia, Tommaso Landolfi, Ennio Flaiano. Dopo, il compromesso con l’industria culturale si farà sempre più imbarazzante, ingombrante, soffocante per la nostra letteratura. Come il suo gemello sul piano economico, il neo-liberismo, e il suo figlioccio parassitario, il social network, l’industria culturale è un calibano che divora tutto.

La gioia dell’arte

“Commentatore paradossale di fatti del giorno”. Con questa espressione, Italo Calvino definì l’attività di Manganelli come critico del presente, in una nota scritta per l’edizione francese di “Centuria”, ora ripubblicata nell’edizione Adelphi di questo libro. Si tratta di un’indicazione importante, se la categoria di “paradosso” è stata utilizzata, da S. Petrucciani, per designare il pensiero di Adorno (nella nuova edizione Einaudi della “Dialettica negativa” del maestro francofortese).

Il paradosso innerva la filosofia contemporanea per intero. È il tempo in cui regnano sovrani l’aforisma e il frammento, di cui furono maestri Karl Kraus e Walter Benjamin. Ogni possibilità di leggere ed esprimere il mondo in senso compiuto è venuta meno con il crollo dei valori tradizionali, del cristianesimo e della metafisica, nonché del soggetto e della famiglia. Si tratta dell’epoca della morte di Dio, che Nietzsche ha interpretato in maniera tanto profonda.

Una volta, il poeta tedesco Gottfried Benn disse che Nietzsche scriveva per aforismi, poiché la scrittura per frammenti è l’unica possibile in una fase storica in cui non sono più credibili i sistemi. Forse Manganelli non è l’unico ad aver colto in maniera pregnante la condizione della nostra epoca. Certamente, egli è riuscito nell’impresa, con una felicità che a pochi altri è stata concessa.