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Sardine: siamo già al flop. Unanimità finita e piazze che non si riempiono più

Da Scampia a Pesaro i dati sulla partecipazione sono impietosi. E con i gruppi locali si moltiplicano i contrasti

Tre mesi. Appena tre mesi e il Grande Fenomeno Democratico si è già sgonfiato. Le Sardine delle diverse regioni litigano tra di loro (per forza: qualche adunata occasionale non può certo bastare a fare una comunità coesa) e le folle non accorrono più.

Ieri a Pesaro, per esempio, i neo custodi della Repubblica Buona contro i Sovranisti Cattivi erano solo qualche centinaio. E che non sia un episodio isolato, ma la conferma di una tendenza ormai in atto, lo riconosce lo stesso Mattia Santori. Che pur aggiungendoci, accortamente, un filo di possibilismo su eventuali ritorni di fiamma, annota che «la stagione delle piazze così come l’abbiamo conosciuta a novembre forse finirà e forse è già finita…».

Sai che rivelazione.

Sai che sorpresa.

Fin dal primo momento, ossia all’indomani del clamoroso successo del flash mob di Bologna, lo scrivemmo pari pari: “un guizzo occasionale che durerà quello che durerà. Solo un fremito momentaneo come lo furono i Girotondi e altre analoghe trovate. Ognuno, evidentemente, ha gli entusiasmi che si merita”.

L’altra sottolineatura che era presente nell’articolo e che vale la pena di riportare, non certo per vantarsene ma per ricordare che quando le chiavi di lettura sono temprate non ci vuole un granché ad aprire le serrature della cronaca, riguardava la natura e le pratiche dell’attivismo politico: “Ciò che servirebbe è il ritorno a un partito di stampo tradizionale. In cui la militanza non sia l’affare estemporaneo di una giornata diversa dal solito, ma un impegno costante. Che è fatto tanto di studio personale, quanto di presenza attiva sul territorio. E che essendo assiduo costringe le gerarchie locali e quelle nazionali a un confronto incessante”.

Proteste una tantum. Establishment semper

Già: non si tratta di show televisivi o di fiction che si seguono per riaccendere qualche emozione perduta e senza fare nessuna fatica. Il voto non è il televoto. L’appoggio a un partito, o a un suo specifico leader, non si esaurisce in un like scoccato in un batter d’occhio dallo smartphone o scandito in una rimpatriata una tantum con i compagni smarriti e delusi dalle infinite giravolte del Pd-exDs-exPds-exPCI.

La politica con la P maiuscola esige stelle fisse e analisi rigorose. Vigilanza assidua e indirizzata non solo contro i nemici (oops: gli avversari) manifesti ma forse ancora di più contro i falsi amici a caccia di un’affermazione personale. E perciò bene attenti a non entrare in conflitto con l’establishment liberista.

Altro che le fascinazioni puerili per il simpatico Obama, che prima di essere un afroamericano rimane uno statunitense. O per il travolgente Renzi in versione rottamatore, che nonostante l’adesione a un partito “di sinistra” è sempre stato e sempre sarà un democristiano fatto e finito.

Lo slancio, per non restare infantile, deve saldarsi a una piena consapevolezza delle forze in gioco. Delle partite in corso non solo qui in Italia o in Europa. Ma nel mondo. E in prospettiva futura.

I veri centri di potere sono zeppi di professionisti spietati che perseguono la propria mission di dominio planetario e se ne fregano delle conseguenze per il resto della popolazione. Non vacillano affatto davanti a Greta. Non si commuovono neanche per una frazione di secondo di fronte alle vittime delle disuguaglianze o delle guerre, siano esse esplicite o striscianti.

L’unica cosa che li potrebbe preoccupare è che emerga e si diffonda una comprensione profonda e definitiva dei loro metodi e dei loro obiettivi.

Quella che una volta si chiamava ideologia.

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