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Roma, il complesso di Santa Maria della Pietà diventa un polo di cultura

La struttura fondata nel 1548 era nata per accogliere in città poveri, forestieri e malati mentali

Santa Maria della Pietà

Santa Maria della Pietà

Situato nel parco di Monte Mario, il complesso del Santa Maria della Pietà racconta un pezzo di storia difficile e ancora poco metabolizzata della città di Roma e del Paese intero. Con i suoi 130 ettari, 41 padiglioni e oltre quattro secoli di vicende, non è semplicemente un ex manicomio: è il simbolo tangibile di come l’emarginazione sia stata istituzionalizzata, di come la sofferenza psichica sia stata trattata – e troppo spesso dimenticata – nella storia moderna.

Santa Maria della Pietà, la storia

Oggi, in un’epoca che prova a fare i conti col proprio passato, il Santa Maria della Pietà è al centro di un ambizioso progetto di rigenerazione urbana. Il paradosso è apparente: un luogo nato per contenere e isolare si prepara a diventare uno spazio aperto alla città, alla cultura, ai servizi, alla memoria.

Fondato nel 1548 dalla Confraternita di Santa Maria della Pietà, l’istituto nasce per accogliere i reietti della città: poveri, forestieri, malati mentali. È una Roma preunitaria, premoderna, in cui la cura dell’anima e del corpo è fusa in un’unica, spesso severa, forma di assistenza. A partire dal 1572 l’ospedale concentra le sue funzioni sulla “cura dei pazzerelli” e da allora diventerà il principale punto di riferimento per il trattamento delle malattie mentali a Roma.

Il trasferimento a Monte Mario all’inizio del Novecento segna l’ingresso in una nuova stagione. Il manicomio si trasforma in villaggio psichiatrico, secondo le teorie allora più avanzate che vedevano nel verde, nella separazione per padiglioni e nella vita semi-autonoma un possibile contributo terapeutico. Ma la distanza fisica dalla città riflette anche una distanza simbolica: chi varcava il cancello di Santa Maria della Pietà era, di fatto, escluso dalla società.

Santa Maria della Pietà, gli eventi salienti

Con la legge 36 del 1904 – la celebre Legge Giolitti – la figura del “malato mentale” diventa ufficialmente quella dell’alienato. Il suo ricovero non è più una possibilità, ma un obbligo: deve essere internato chi rappresenta un pericolo per sé o per gli altri, o chi genera pubblico scandalo. È il codice della contenzione sociale, più che della cura.

A Santa Maria della Pietà questo si traduce in prassi rigide: i pazienti perdono il nome e diventano numeri. Vestono uniformi, vivono separati per tipologia clinica e per “pericolosità”. La loro giornata è scandita da turni e controlli, e la medicina si intreccia a forme di disciplinamento quotidiano. Il ricovero, più che terapeutico, diventa strumento di controllo.

Tra le pagine più dolorose della storia del manicomio, quella delle donne internate è forse la più emblematica. Non tutte le ricoverate soffrivano di disturbi psichici. Alcune erano lì perché non conformi, “inadatte” al modello dominante: donne ribelli, madri non sposate, mogli infelici o semplicemente “eccentriche”.

Il racconto di Alda Merini

Durante il fascismo la repressione si intensifica: chi non rientrava nel ruolo di “angelo del focolare” poteva essere internata con facilità. Bastava un comportamento ritenuto inappropriato o l’accusa di essere “malacarne”. Il manicomio diventava così uno strumento per neutralizzare la libertà femminile.

Nel dopoguerra, le cose cambiano molto lentamente. La scrittrice Alda Merini, con il suo diario “L’altra verità”, ha raccontato in modo straziante l’internamento vissuto in prima persona, una testimonianza rara e potente sul dolore della reclusione psichiatrica e sulla fragilità dell’autodeterminazione femminile.

Il Santa Maria della Pietà, per come si sviluppò nel corso del Novecento, era un microcosmo autosufficiente. Accanto ai reparti clinici c’erano laboratori, officine, cucine, lavanderie, una chiesa e persino una colonia agricola. Ma ogni sua funzione era piegata a un ordine gerarchico rigido e spesso crudele.

Santa Maria della Pietà, la rinascita

I reparti erano separati per “categoria psichiatrica”: tranquilli, agitati, criminali, osservati. Le donne in una parte, gli uomini in un’altra. Le punizioni erano frequenti, e la medicina era somministrata più come forma di sedazione e controllo che di guarigione. Il confine tra cura e disciplina era sottilissimo.

Eppure, proprio in questo contesto, alcuni medici e operatori tentarono nel tempo timide sperimentazioni alternative, gettando le basi per il cambiamento che sarebbe arrivato decenni dopo con la Legge Basaglia del 1978 e la chiusura definitiva dei manicomi.

Oggi il Santa Maria della Pietà è oggetto di una trasformazione radicale. Non solo fisica, ma soprattutto simbolica. Alcuni padiglioni sono stati ristrutturati e ospitano servizi sociosanitari, spazi per associazioni, archivi storici, iniziative culturali, eventi artistici e mostre permanenti. Il parco è tornato a essere luogo di incontro per il quartiere.

La rigenerazione, tuttavia, non è semplice: riguarda la memoria collettiva, il riconoscimento delle sofferenze passate e la capacità di costruire qualcosa di vivo e condiviso. Il percorso verso un utilizzo pienamente pubblico e partecipato del complesso è ancora in corso, tra vincoli urbanistici, piani di destinazione e investimenti. Ma quel luogo, ora, non vuole più essere chiuso.