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Referendum ad governum o contra governum: uso improprio di armi democratiche

Ormai da anni, moltissimi cittadini non sono più legati stabilmente, e men che meno a oltranza, a questo o a quello schieramento

Maurizio Landini, CGIL

Maurizio Landini, CGIL

Il vero scopo dei referendum promossi dalla CGIL è questo. Utilizzare i quattro quesiti relativi al mondo del lavoro per farne una mobilitazione di massa contro l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Nel presupposto, capzioso, che il solo fatto di recarsi alle urne attesti una vicinanza politica all’opposizione e, quindi, la disponibilità a sostenere Elly Schlein & C. nelle future elezioni. A cominciare da quelle regionali del prossimo autunno.

A dirlo in modo esplicito è stato, ad esempio, il capo dei senatori PD Francesco Boccia. Che nel maggio scorso lo proclamò pari pari: «Se voteranno più dei 12,3 milioni che hanno consentito a Meloni di andare a Palazzo Chigi sarà un avviso di sfratto al Governo».

La forzatura è palese: così come l’esito del voto locale non si può trasferire automaticamente in ambito nazionale, a maggior ragione non è lecito farlo nel caso dei referendum. Che per loro natura vertono su questioni a sé stanti, rispetto alle quali si possono avere posizioni diverse dalla maggioranza parlamentare senza, perciò, esserle contrari in blocco.

Figuriamoci, poi, pretendere di stabilire questa equivalenza allargandola alla mera partecipazione al voto. Se è vero, infatti, che il centrodestra ha caldeggiato l’astensione per evitare che venga raggiunto il quorum, non è affatto scontato che non seguire il suggerimento implichi di per sé un rifiuto di più ampia portata.

La verità è ben diversa.

Un Paese confuso, un elettorato mobile

Oggi, e ormai da anni, moltissimi cittadini non sono più legati stabilmente, e men che meno a oltranza, a questo o a quello schieramento.

In parecchi casi si valuta di volta in volta e si decide sulla base di motivazioni transitorie. E di per sé mutevoli. Le suggestioni momentanee sono frequenti e si dissolvono con la stessa facilità con cui si sono formate. Se un tempo si votava il medesimo partito per tutta la vita, e magari si perpetuava l’adesione dai genitori ai figli, il nuovo standard è che ci si muove di qua e di là.

Parafrasando il noto film di Verdone, “il consenso è eterno finché dura”.

Non solo. Sempre più spesso, quando l’innamoramento svanisce, non ci si mette nemmeno a cercare e a scegliere un nuovo amore politico ma ci si ritira in una sorta di castità elettorale.

Fine delle speranze: più o meno siete tutti uguali e non vale la pena di continuare a darvi retta. Vedi la massiccia erosione dell’affluenza ai seggi, con cifre che hanno raggiunto, e persino superato, la soglia del 50 per cento. Se si fosse trattato di referendum, appunto, le consultazioni sarebbero state annullate. Poiché la Costituzione non fissa nessun vincolo analogo – con ogni probabilità perché all’epoca era semplicemente impensabile che un fenomeno del genere si potesse verificare, o addirittura dilagare – si fa finta di niente e si procede imperterriti.

Ma il problema rimane. E il problema è che dopo la cosiddetta morte delle ideologie le appartenenze sono diventate molto più labili. Fino a scomparire del tutto. Tolti quelli che si identificano “a prescindere”, sorvolando su trasformazioni talmente profonde da sconfinare nel tradimento delle posizioni originarie (dal PCI al M5S), la tendenza che si va affermando è che il voto di oggi potrebbe/potrà non coincidere con quello di domani.

Vuoi spostandosi su altri soggetti della medesima area, come si è visto nell’enorme crescita di Giorgia Meloni a scapito di Matteo Salvini, e quindi di FdI a scapito della Lega. Vuoi transitando da un versante all’altro, perché non si crede più alla buonafede di certi partiti e di chi li guida.

E questo ci riporta ai referendum. I singoli temi rimangono tali. L’eventuale appoggio a delle specifiche istanze non comporta nessuna adesione a tutto campo.

Ovvero, in questo caso, al Campo largo.

CGIL: la sollevazione a scoppio ritardato

La distorsione complessiva l’abbiamo vista. Ma poi ce n’è un’altra. Che balza all’occhio non appena si ricostruisca un minimo di cronologia.

Uno: il Jobs Act risale al 2014. E venne approvato, in più fasi, dal governo Renzi. Quando lo stesso Renzi era il segretario del PD.

Due: la campagna referendaria, che mette nel mirino alcuni aspetti cruciali del Jobs Act, è stata decisa dalla Cgil il 26 marzo 2024.

Dieci anni dopo.

Dieci anni che non segnano solo un poderoso e colpevole ritardo – se l’obiettivo fosse davvero quello di contrapporsi alle norme in questione, così come alle logiche da cui esse discendono – ma che dipendono, evidentemente, da ciò che è avvenuto nel frattempo.

Renzi non è più il Presidente del Consiglio, dal dicembre 2016, e non è più neanche nel PD, da cui è uscito nel settembre 2019 per costituire Italia Viva.

La coalizione di centrodestra ha vinto nettamente le elezioni del 2022 e la sua leadership, Giorgia Meloni in testa, non è stata logorata dai quasi tre anni alla guida del Paese. Decimale più, decimale meno, i dati dei sondaggi rimangono gli stessi. Laddove, come regola generale, le forze di governo tendono a perdere consenso via via che le legislature si svolgono.

La conclusione è ovvia.

Non riuscendo a imporsi con i normali mezzi della propaganda, e non riuscendo nemmeno a costruire un’alleanza stabile tra i partiti di opposizione, si tenta di far passare l’idea che in Italia ci sia una maggioranza di cittadini che non si riconosce nell’attuale esecutivo e che, perciò, è pronta a spazzarlo via nelle elezioni che verranno.

Ma sono calcoli infondati. Che per l’ennesima volta confondono ciò che si desidera con quello che può accadere realmente.

La credibilità del PD, e della Cgil, si è sgretolata sull’arco di anni e anni. E per ricostituirla non può certo bastare una rinfrescatina, di facciata, alle vecchie tematiche della difesa del lavoro dipendente.

Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia