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La Città dolente. Dentro il Carcere romano di Rebibbia

L’esclusiva intervista a Luigi Giannelli, commissario coordinatore di Polizia Penitenziaria

isolamento Bianchi

Carcere Rebibbia

La Città dolente. Dentro il Carcere di Rebibbia

“Oggi ho spostato l’Angelo Della Morte”. “E dove l’hai messo?”. “In stanza da solo”. “L’ho sposato io, quello”. È Angelo Stazzi il soggetto del discorso, l’infermiere di Montelibretti accusato dell’omicidio della sua compagna e di altri sette anziani. La conversazione si svolge nella stanza di Luigi Giannelli, commissario coordinatore di Polizia Penitenziaria presso la Casa Circondariale di Rebibbia. Abbiamo parlato a lungo di alcuni detenuti che scontano la loro pena, più o meno grave, nel penitenziario romano. Ciò che colpisce è la profonda umanità con cui Giannelli parla “dei suoi ragazzi”. Anche quando perdonare è difficile, anche quando la nostra integrità morale vorrebbe girarsi dall’altra parte. «Ci vuole equilibrio, come in tutte le cose. Devi sapere camminare in equilibrio, e dimostrare quello che loro non si aspettano», ci dice Giannelli. «Io li metto sempre in difficoltà, perché loro pensano che la guardia debba essere un nemico. Io invece dico loro che sono lì per compiere una missione e possono parlare con me se accettano di non trascinarmi nella loro strada. Devo dire che su quel carretto tante persone sono salite. C’è chi si è poi perso nel tragitto, chi invece è arrivato al dunque, ma anche uno che arriva alla fine è una gran vittoria».

Una nuova tipologia di polizia penitenziaria

In questi anni sempre di più le forze dell’ordine saltano agli onori della cronaca per la violenza del loro approccio nei confronti di individui più o meno violenti. È la legge della giungla, dove il più debole soccombe al più forte. La differenza la facciamo quando ci rendiamo conto che siamo esseri umani. Anche tra i ranghi della polizia penitenziaria c’è stato un sensibile cambio di prospettiva. È sempre Giannelli (Rebibbia) a spiegarci in che senso: «Ci sono persone più istruite, perché magari vengono da una formazione didattica molto più centrata sul fattore psicologico. Prima non si parlava di psicologia, non sapevamo neanche cosa fosse. O meglio, c’era chi non lo sapeva assolutamente. Si reagiva secondo i modelli del criminale: tu mi picchi, io ti picchio. Era la logica della foresta, io ti mangio perché ho fame. Dopodiché è subentrata l’idea dell’importanza del ruolo nel tessuto sociale. Se io venissi classificato come un semplice guardiano, allora sminuirei la mia figura. Il lavoro va fatto bene, non puoi mettere il ragazzo a rischio facendogli vedere che sei simpatizzante: anzi lo devi stimolare con più rigore. Così saprà cosa scegliere».

Studiare rende liberi

Come si può pensare alla reintegrazione sociale se non si dà una alternativa? Ad oggi collaborano con il carcere di Rebibbia le università di Roma Tre, Tor Vergata e La Sapienza: dalla facoltà di Giurisprudenza a quella di Lettere sono circa 150 i detenuti che hanno scelto di regalarsi un futuro migliore partendo dai libri. E non c’è cosa più bella, dice Luigi Giannelli che sentirsi dire «ho bisogno di questo libro per studiare». «Io il libro te lo vado a cercare, perché mi stai chiedendo questo e non la droga».  C’è ad esempio un ergastolano, ex killer della Camorra, che dopo aver passato anni in isolamento oggi non solo è laureato, ma è anche Dottore di ricerca. «Il mare si costruisce con una goccia dopo l’altra, perché non posso credere che goccia dopo goccia formeremo l’oceano? I migliori compagni della nostra vita sono quelli che hanno bisogno di abbeverarsi dalla fonte, non quelli che già sanno tutto. Gesù cercava le persone più cattive, non i santi».

«È come fuori, solo che qui si vive in cattività»

Non ci pensiamo mai, ma anche il carcere è fatto di storie: c’è la ragazzina intenzionata a sposare il fidanzato carcerato, c’è l’uomo che cerca redenzione, c’è anche chi non si è mai pentito. È un disegno di Giudizio Universale perfetto. «Vedi tutte quelle anime appese che sono tutti frutto di tante carenze. Io li chiamo “frutti sospesi nell’aria” e penso che dentro ogni frutto ci sia qualcosa di buono. Se li lasci marcire no, e questo è colpa poi dell’atmosfera. Questo è un carcere in una città purtroppo dolente. Tu sai che ogni parete respira, e il più delle volte deve avere la vittima di turno. Noi siamo i guardiani di questo palazzo e spesso non osserviamo bene e lasciamo andare il mondo come gira». E un guardiano cosa può fare per rendere questa città meno dolente?«Può parlarne. Sto portando avanti un progetto su come il coronavirus abbia influenzato la vita nelle carceri. Qui a Rebibbia – conclude Giannelli – non abbiamo avuto molti casi, il virus si è esteso poco perché abbiamo capito come controllarlo e abbiamo subito applicato le selezioni, la quarantena ecc. Ma sarà un discorso generale quello di cui parlerò, verrà insomma presentata questa città dolente».

*In collaborazione con Chiara Moccia

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