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L’orrore nascosto del Made in China a Roma Tre

Resoconto della conferenza organizzata da Direzione Futuro

La conferenza che si è svolta all'Università di Roma Tre, presso il Dipartimento di Giurisprudenza, è stata “un’occasione per mostrare  il lato oscuro della Cina, o meglio quel modello socio-economico che spesso viene mostrato come esempio per la sua capacità di creare profitto, ma che in realtà è frutto di una fusione tra un comunismo sdoganato e liberismo sfrenato”. Questo è quanto dichiarato dagli studenti di Direzione Futuro, organizzatori dell’evento. 

Le conseguenze di ciò le vediamo tutti, non c’è bisogno di recarsi a Pechino per notare il trattamento degli operai al lavoro nei capannoni tessili di Prato o negli scantinati di piazza Vittorio a Roma. Gli effetti sulla nostra economia sono altrettanto tangibili, nella sola provincia di Prato, cuore pulsante del  settore  tessile italiano, ogni anno sono costrette a chiudere due aziende italiane su tre; si assiste onvece ad un trend inverso per i competitors orientali: nello stesso capoluogo di provincia riescono ad aprire in media al mese 70 aziende cinesi.  

L’opera di controllo e contrasto alla contraffazione ed alla concorrenza sleale da parte delle forze dell’ordine sembra  un “voler svuotare l’oceano con un secchiello” come spiega Giovanni Morosi, commissario responsabile del reparto Nuclei Operativi Speciali della Polizia Municipale del posto.  Nel 2012, sono state 323 le strutture ispezionate, 116 quelle sequestrate – «tutte intestate a cinesi tranne una di un italiano», spiega il commissario. In tutto sono state chiuse 151 imprese e ritirati 5.092 macchinari.

Tornando alla conferenza organizzata dagli studenti di Direzione Futuro, ci soffermiamo sul tema portante dell’iniziativa,  i “Laogai”, parola che a molti può suonare nuova, che al suo interno cela uno dei numerosi  controsensi del modello cinese. Tradotto in italiano sta ad indicare “riforma attraverso il lavoro”,  come ci spiega uno dei relatori, il dottor Antonio Brandi, presidente della Laogai Research Foundation italiana, la prima affiliata dell’organizzazione fondata nel 1992 a Washington da Harry Wu, attivista per i diritti umani nella Repubblica popolare cinese.

”I dati del 2008 parlano di 1420 campi di lavoro nella Repubblica Popolare Cinese,  qui vengono rinchiusi semplici dissidenti del regime o esponenti della comunità tibetana”. Tutto questo capitale umano a disposizione, viene  impiegato nella realizzazione di prodotti destinati a numerose aziende mondiali, tra cui alcune italiane. Per esempio “in due laogai, dello Xin jang e del Turkestan orientale, vengono prodotte tonnellate di triplo concentrato di pomodoro, che finiscono nelle nostre tavole come Made in Italy“.

Stando a tali affermazioni  si delinea uno scenario a dir poco inquietante, in cui è lecito dubitare della credibilità di un paese incaricato tra l’altro di ricoprire un ruolo guida nel Consiglio di Sicurezza Onu. In questo senso il Presidente Brandi conclude elogiando iniziative come quella realizzata nell’Università di Roma Tre, dove si rende necessario “denunciare l’alleanza che esiste tra il capitalismo occidentale e la Repubblica popolare Cinese finalizzata alla realizzazione, all’interno dei Laogai, di prodotti da destinare ai mercati di tutto il mondo”.

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