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Giano bifronte: le opposte ragioni di ottimismo e pessimismo

Nel mondo contemporaneo, la bilancia pende molto decisamente in favore del pessimismo

Sfinge dei Nassi, conservata nel Museo archeologico di Delfi

Sfinge dei Nassi, conservata nel Museo archeologico di Delfi

Il rapporto e la dialettica tra ottimismo e pessimismo è fondamentale nella cultura occidentale di tutte le epoche. Il tema è cruciale, poiché implica un giudizio complessivo sulla vita e il suo esito, nonché sulla percorribilità del cammino.

I primordi

Nella cultura greca, ad esempio, abbiamo grandi manifestazioni della cultura tragica, quindi pessimistica, nel pensiero dei Presocratici, i primi filosofi del mondo greco, che Giorgio Colli definiva sapienti. Un atteggiamento analogo troviamo in Eschilo, Sofocle ed Euripide, i massimi esponenti della tragedia classica.

Appartiene a questo clima culturale e spirituale, il celebre detto – presente sia in “Edipo a Colono” di Sofocle, sia nella “Nascita della tragedia” (1872) di Nietzsche, sia in conclusione a “Sulla rivoluzione” (1963) di H. Arendt – che afferma: “Non esser nati è la sorte migliore / o almeno appena nati ritornare / a quel mondo da cui siamo venuti” (trad. it. di M. Magrini).

Ma, nell’ambito della grande cultura greca, abbiamo anche un pensiero filosofico come quello di Socrate, Platone e Aristotele, in cui gli elementi ottimistici sono assai più cospicui. Per non parlare della cultura dell’Atene periclea, il cui tratto fondamentale, per uno storico come Domenico Musti, è stato proprio l’ottimismo.

Tra Rinascimento e modernità

Nella cultura del Rinascimento, si alternano momenti di grande luminosità e momenti di malinconia profonda e pessimismo. Così in Leonardo e Machiavelli, tra i massimi esponenti della cultura fiorentina tra Quattro e Cinquecento.

Anche nella cultura del classicismo di Weimar, in Goethe e Schiller soprattutto, sussiste questo equilibrio. Analogo discorso può valere per i titani dell’idealismo tedesco: Kant, Fichte, Schelling, Hegel.

Mentre, in altri momenti della cultura moderna, il rapporto cambia, per lo più a favore dell’ottimismo. La scienza moderna è un fenomeno di natura prevalentemente ottimistica. Allo stesso modo ciò vale anche per l’illuminismo. Laddove la fiducia nella potenza e nella forza della ragione è illimitata, di solito prevale uno sguardo positivo sulla vita.

Ciò vale soprattutto per Leibniz, il campione dell’ottimismo filosofico, nonché per la sua tesi sul “migliore dei mondi possibili”, contenuta nella “Teodicea” (1710). A questo grande pensiero, e al dibattito intorno ad esso, Steven Nadler ha dedicato un bel libro, “Il migliore dei mondi possibili. Una storia di filosofi, di Dio e del Male” (ed. it. Einaudi), da noi commentato in un articolo precedente di queste rubriche.

Non solo, ma anche in Voltaire, che di Leibniz fu un critico, nel celebre “Candido o L’ottimismo” del 1759, prevale il clima ottimistico e la fiducia nella ragione e nella scienza.

La tragedia contemporanea

Ma è nel mondo contemporaneo, che la bilancia pende molto decisamente in favore del pessimismo e di una concezione tragica della vita.

Con Schopenhauer e Leopardi, innanzitutto. Sebbene più giovane di Hegel di una generazione soltanto, Schopenhauer rovescia il sostanziale ottimismo hegeliano con implacabile consequenzialità. Leopardi, in Italia, farà lo stesso (pur non avendo, ovviamente, la grande tradizione idealistica come obiettivo polemico). Un critico acuto come F. De Sanctis li accomunò in un saggio che fece epoca, “Schopenhauer e Leopardi” del 1858.

Con Kierkegaard e Marx, ognuno per i suoi motivi, la musica non cambia. Ma è con Nietzsche, che la tragedia assume a dignità di diagnosi epocale e definitiva sul corso della civiltà e della vita umana. Concetti capitali del suo pensiero come la volontà di potenza, il super-uomo, la morte di Dio, Dioniso, il nichilismo, l’eterno ritorno, significano appunto questo. Sebbene, per la natura paradossale del pensiero di Nietzsche, sentimento tragico della vita e affermazione della stessa coincidano.

Il Novecento: un cuore che sanguina

Il XX secolo – con il suo corso, il suo andamento, la sua storia – non ha certo aiutato una visione ottimistica della vita o, quantomeno, uno sguardo sereno su questa esistenza.

Da Kafka all’esistenzialismo, da Montale alla Scuola di Francoforte, da Kraus all’ultimo Heidegger, da Canetti a Ingeborg Bachmann e Thomas Bernhard, fino ai nostri Giorgio Colli, Emanuele Severino e Guido Ceronetti, la tragedia ha imperversato ovunque. Fino all’autocompiacimento, in alcuni casi. Ecco perché, quegli autori in grado di sposare speranza e senso della realtà, sono tanto graditi.

Per ragioni differenti, un romanziere come il nostro Leonardo Sciascia e un filosofo come Jürgen Habermas, si sono mossi in questa direzione. Sciascia ha saputo unire la coscienza tragica del Novecento e delle condizioni politiche dell’Italia alla luminosità dei profumi e della bellezza della Sicilia. Habermas, dopo essersi confrontato con la crisi della ragione degli ultimi due secoli, ha recuperato la lezione di Kant e dell’illuminismo, con acquisizioni positive anche in direzione dell’ottimismo.

La morale della favola

Se la verità è un fatto di interpretazione e di prospettiva, è possibile dire che il sentimento tragico corrisponde al radicalismo della gioventù. All’esigenza di una visione netta, senza margini e sfumature, che sappia cogliere il cuore delle cose una volta per tutte.

Con il passare del tempo e il sopraggiungere della maturità, subentrano altre esigenze, quasi dettate dal corpo stesso che invecchia. Subentra il piacere per le atmosfere tenui, soffuse, per quei dispositivi, esistenziali e veritativi, in grado di smussare gli angoli, di attutire i colpi degli spigoli e delle punte più aspre. Ciò porta a considerare, in modo positivo, quelle istanze di cui la gioventù non voleva affatto sapere: realismo politico e sapienza biblica