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Ecco il Conclave: una Chiesa ricca per combattere la povertà

Per fare carità, per agire con efficacia nei contesti di crisi e marginalità, servono risorse. E non solo quelle spirituali

Piazza San Pietro in Vaticano, il colonnato

Piazza San Pietro in Vaticano, il colonnato

Non è un paradosso, anche se a prima vista potrebbe sembrarlo. “Serve una Chiesa ricca per sconfiggere la povertà”, ha affermato Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello IOR (Istituto per le Opere di Religione), una figura controversa ma mai banale nella galassia vaticana.

Il Vangelo incontra la finanza: un equilibrio fragile

Le sue parole vanno lette con attenzione, al di là della superficie. Perché dentro questa affermazione si nasconde una provocazione: la necessità di superare l’antica diffidenza tra spiritualità e denaro per costruire una Chiesa più capace di incidere, concretamente, nelle dinamiche economiche globali.

Oggi più che mai, la Santa Sede si trova stretta tra una crescente esigenza di trasparenza e sostenibilità economica da un lato, e il dovere evangelico di occuparsi degli ultimi dall’altro. Ma per fare carità, per agire con efficacia nei contesti di crisi e marginalità, servono risorse. E non solo quelle spirituali.

Il peso del Vaticano nel sistema economico globale

Contrariamente a quanto spesso si pensa, il Vaticano non è un gigante economico. Le sue finanze sono complesse, distribuite tra immobili, donazioni, investimenti finanziari e patrimoni gestiti da enti autonomi. Il bilancio della Curia Romana, nel 2023, è stato poco più che in equilibrio, con una progressiva riduzione del deficit grazie a una gestione più rigorosa, introdotta in gran parte sotto il pontificato di papa Francesco.

Ma non si tratta di una ricchezza illimitata. Le risorse sono frammentate, vincolate, spesso legate a destinazioni d’uso specifiche. La stessa riforma dello IOR e la nascita della Segreteria per l’Economia sono nate proprio per razionalizzare e rendere più efficace il governo finanziario vaticano.

In questo contesto, le parole di Gotti Tedeschi acquistano un senso diverso: la Chiesa, se vuole davvero giocare un ruolo nei grandi temi della giustizia sociale, non può permettersi l’analfabetismo economico. Non si tratta di accumulare denaro per sé, ma di saperlo gestire per il bene comune.

Un Papa economista: un auspicio, non una contraddizione

“Un Papa santo che ne sappia di economia”, sogna Gotti Tedeschi. Una frase che può far storcere il naso a chi ha una visione purista del ruolo pontificio, ma che in realtà tocca una questione reale: oggi il Vescovo di Roma non può permettersi di essere unicamente un pastore. Deve anche essere un capo di Stato, un amministratore, un comunicatore e, sì, un leader capace di comprendere i meccanismi finanziari che regolano il mondo.

Papa Francesco, in questo senso, ha tracciato una linea netta, più etica che tecnica, spingendo la Chiesa verso una critica esplicita al capitalismo sfrenato e all’idolatria del profitto. Ma la sfida è duplice: non basta denunciare, bisogna anche proporre modelli alternativi. E qui l’economia, nella sua versione più umana e sostenibile, diventa un linguaggio da imparare.

Il ruolo strategico del Segretario di Stato

Gotti Tedeschi ha poi aggiunto che servirebbe anche un Segretario di Stato forte. Un riferimento che, nel linguaggio vaticano, ha un peso enorme. Il Segretario di Stato è il cuore diplomatico e organizzativo della Santa Sede, ma spesso anche il crocevia delle decisioni finanziarie più delicate.

La richiesta di una figura autorevole in questo ruolo non è casuale: nel sistema Vaticano, il Segretario di Stato deve saper tenere insieme l’anima spirituale e quella gestionale della macchina curiale. Se questa figura è debole, le derive burocratiche, le inefficienze e anche gli scandali diventano inevitabili. È successo più volte, e in certi momenti ha minato la credibilità stessa del messaggio cristiano.

Ricchezza e povertà: un falso dualismo

Alla radice di tutto c’è un problema culturale: l’idea, spesso implicita, che la povertà sia una virtù e la ricchezza una colpa. Ma in realtà, come ci insegna la Dottrina Sociale della Chiesa, non è il possesso di beni in sé a essere moralmente problematico, bensì l’uso che se ne fa.

Una Chiesa che rifiuta il denaro per principio rischia di diventare irrilevante. Ma una Chiesa che lo gestisce con trasparenza, visione e finalità evangeliche può diventare un attore decisivo nella costruzione di una società più giusta. Il punto non è se essere ricchi o poveri, ma come usare le risorse per rendere credibile e operativa la carità.

Mauro D’Ambrogio