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Umanesimo e dintorni, una grande eredità

Nessuno, come Goethe, ha dimostrato la possibilità e l’esistenza di un’altra Germania

La domanda relativa alle potenzialità dell’umana conoscenza richiama, sempre, quella relativa ai limiti della medesima, quasi che pensarsi come uomini nient’altro significhi che l’avere consapevolezza di una situazione, che non può mai venire completamente in chiaro con sé stessa.

Nell’ambito della Cultura occidentale, sono pochissimi i nomi di cui si può dire, con ragionevole approssimazione, che hanno oltrepassato i confini che sono propri dell’umano. È possibile e ragionevole elencare i nomi di questa folgorante élite: Platone per la filosofia, Michelangelo per le arti figurative, Galilei per la scienza, Goethe per la letteratura.

Per ragionare solo sull’eredità di quest’ultimo, è possibile senz’altro affermare che il peso di Goethe sulla cultura europea è senza termini di paragone, soprattutto per ciò che riguarda l’area linguistica tedesca. Walter Benjamin notò, da grande critico di Goethe che per tutta la vita ne subì il potente influsso, che la borghesia tedesca aveva il suo nume in Schiller piuttosto che in Goethe.

Soluzioni estetiche e ideali più semplici, assicurarono a colui che Goethe considerava un suo pari, la certezza di un successo più immediato. Ma fu grazie all’implacabile, e lodevole, sete di profondità di un secolo come il Novecento, se il nume di Weimar divenne la stella polare di moltissimi poeti e pensatori del secolo scorso.

Per avere idea di cosa Goethe abbia significato per la cultura mitteleuropea, basterà ricordare cosa ne scrissero Hugo von Hofmannsthal – il grande poeta viennese antagonista di Karl Kraus, che sulla sua rivista pubblicò il grande saggio di Benjamin sulle “Affinità elettive” – ed Elias Canetti.

Nel “Libro degli amici”, Hofmannsthal scrive: “Dalle massime in prosa di Goethe procede oggi forse maggior virtù d’insegnamento che da tutte le università tedesche insieme” (ed. it. Adelphi, p. 83). In “La provincia dell’uomo”, Canetti fa questa sconvolgente dichiarazione: “Se nonostante tutto dovessi restare in vita, lo dovrei a Goethe, come si deve soltanto a un dio. Non è un’opera, è l’aria, è la precisione di un’esistenza piena, che d’improvviso mi hanno sopraffatto” (ed. it. Adelphi, p. 56).

Impossibile dimenticare il debito con Goethe dei grandi pensatori e critici del marxismo europeo: Lukács, Benjamin, Adorno. Altrettanto difficile ignorare la monografia che Benedetto Croce dedicò a Goethe nel 1919. Solo Heidegger, costretto dalla sua miopia anti-umanistica, fece di Goethe il cavallo perdente rispetto ad un Hölderlin poeta dell’essere.

Ma fu Thomas Mann, nel contesto del ripensamento dell’eredità del grande poeta condotto nel Novecento, ad essersi spinto fino ai limiti dell’identificazione con le ragioni dell’autore del “Faust”. Non solo per i saggi critici dedicati a Goethe, non solo per aver intitolato uno dei suoi grandi romanzi del periodo tardo “Doktor Faustus” e dunque aver letto il crollo – morale, politico, umano – della Germania del Terzo Reich sotto la lente del mito di Faust (come già aveva fatto il figlio Klaus con il romanzo “Mephisto” del 1936), ma soprattutto per un romanzo come “Carlotta a Weimar” del 1939.

L’anno prima, il vate della letteratura tedesca rifugiatosi in America, aveva dichiarato: “Dove sono io, lì è la Germania”. Qui non è più soltanto di estetica o di critica letteraria che si tratta. Ad essere in ballo è il destino della civiltà tedesca e la dolcezza di dialoghi ineffabili è la risposta alle grida di morte delle SS che imperversavano allora per l’Europa.

Nel 1944, a chi gli domandava come avesse voglia di leggere il tedesco di Goethe, con tutto quello che il mondo stava pagando in nome della supposta superiorità razziale del popolo germanico, Croce rispondeva che la lingua di Goethe non era il tedesco ma, appunto, la lingua di Goethe e come tale parlava all’umanità.

Nessuno, come Goethe, ha dimostrato la possibilità e l’esistenza di un’altra Germania, nessuno come lui ha contribuito a circoscrivere l’orrenda parabola del nazismo, restituendo la cultura tedesca all’umanità.

 

 

 

 

 

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