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Umanesimo e dintorni, cultura e sopravvivenza

Riscoprire l’insondabile fascino della Parola è l’unico atteggiamento che può porre un argine alla catastrofe planetaria che stiamo vivendo

La cultura europea è presa in un processo di decadenza che rischia di divenire inarrestabile. Stretti tra l’industria culturale, sui pericoli della quale già Horkheimer e Adorno ammonivano nel lontano 1947 con la “Dialettica dell’illuminismo”, e la rivoluzione digitale che ha trasformato la terra in un’appendice di internet, i nipotini di Platone, Sant’Agostino, Machiavelli e Voltaire, associano immediatamente alla cultura la parola noia, alla poesia il pensiero di romanticherie incomprensibili e lontane dalla realtà, alla filosofia l’idea che si tratti di un delirio personale dello scrivente, non importa se questo si chiami Kant o Heidegger.

Jürgen Habermas è rimasto l’unico filosofo degno veramente di questo nome, l’unico la cui opera abbia un respiro europeo.

Per quanto riguarda le sorti della nostra cultura nazionale, è possibile dire che l’Italia non se la passa tanto meglio. Si pensi alla nostra letteratura, che ha dato al mondo momenti di folgorante grandezza, al fatto che nella seconda metà del secolo scorso erano vivi Eugenio Montale, Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Leonardo Sciascia, Natalia Ginzburg, Pier Paolo Pasolini, Tommaso Landolfi, Giorgio Manganelli, Ennio Flaiano, Umberto Eco e li si paragoni ai vari Saviano, Camilleri, Carofiglio, De Cataldo, De Luca.

Non si potrà che avere la sensazione che la decadenza della nostra cultura sia tangibile e molto concreta. Eppure alcune forze vive resistono: numerosi e valenti studiosi di un numero ampio di discipline e alcuni nomi più che degni di essere menzionati: Guido Ceronetti, Emanuele Severino, Alberto Arbasino, Pietro Citati, Roberto Calasso. Vale la pena spendere qualche parola sull’opera di quest’ultimo.

Calasso unisce, alle sue opere, il mestiere di editore e non apparirà esagerato affermare che l’impresa condotta come nome di spicco alla guida di Adelphi, sotto l’impulso decisivo di Roberto Bazlen, abbia dato un contributo alla nostra cultura, in termini di accrescimento e maturazione: dalle “Opere di Friedrich Nietzsche”, curate da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, ai moltissimi capolavori della letteratura mitteleuropea, a un ampio numero di testi della cultura orientale, alla biblioteca di filosofia, nella quale si segnalano le opere di Heidegger a cura di Franco Volpi.

Tutte cose che la cultura italiana aspettava da tempo e che, in un clima culturale che andava da Croce a Gramsci con innesti di Lukács, erano di difficile realizzazione.

Il lavoro letterario e speculativo di Calasso consiste soprattutto in una vasta opera, priva ancora di un nome complessivo e composta di nove pannelli, il cui primo volume risale al 1983 e di cui l’ultimo è uscito nel 2017.

Questi i titoli delle singole opere: “La rovina di Kasch”, “Le nozze di Cadmo e Armonia”, “Ka”, “K.”, “Il rosa Tiepolo”, “La Folie Baudelaire”, “L’ardore”, “Il Cacciatore Celeste”, “L’innominabile attuale”. Innanzitutto bisogna dire che “La rovina di Kasch” – che ebbe una lusinghiera recensione di Italo Calvino che, al principio, notò come il libro tratti due argomenti: “il primo è Talleyrand, il secondo è tutto il resto” (“Saggi”, I, p. 1016) – si connetta a “L’innominabile attuale”.

L’espressione, che è una diagnosi critica sul nostro tempo, compare già nel primo libro, in un capitolo intitolato “La storia sperimenta”.

Ossia, non ci sono concessioni all’ottimismo illuminista nel modo in cui Calasso guarda alla contemporaneità. Di qui l’importanza assegnata al mito: “Le nozze di Cadmo e Armonia” sono una splendida e vigorosa rivisitazione del mito greco. La chiave di lettura dell’opera va ricercata nella citazione iniziale, presa dal trattatello di Salustio, intellettuale neoplatonico della tarda antichità, intitolato “Degli dèi e del mondo”. La frase dice: “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”.

Walter Otto, grande studioso del mito greco, nella sua monografia su Dioniso del 1933, afferma, a proposito di questa espressione, che essa testimonia “di un accadimento che non è contingente ma perenne” (ed. it. p. 81).

Questa chiave di lettura serve ad illustrare la valenza del mito in generale, dunque anche del mito indiano, cui sono dedicati Ka e L’ardore. Inutile dire che quello dell’antichissima India in cui nacquero i Veda è un mondo culturale aspro, almeno quanto quello della grande cultura della Grecia arcaica, tragica e presocratica, di più se si riflette sul fatto che la cultura greca è all’origine anche della nostra forma mentis attuale, mentre dall’India antica ci separa tutto, a partire dai presupposti di una comune visione del mondo.

Eppure, sul piano generale, è possibile fornire almeno un’indicazione decisiva: gli antichissimi indiani, come è detto in “Ka”, erano “devoti, forse fanatici della conoscenza” (p. 197). Oppure, come è detto al principio di “L’ardore”, essi costruirono “un Partenone di parole” (p. 21). Coltivare il culto della Parola, riscoprirne l’insondabile fascino, è allora l’unico atteggiamento che può porre un argine alla catastrofe planetaria che stiamo vivendo.

 

 

 

 

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