Prima pagina » Rubriche » Umanesimo e dintorni, il Cantore della crisi

Umanesimo e dintorni, il Cantore della crisi

“La morte a Venezia” è una piccola perla di rara perfezione. Forse solo “La metamorfosi” di Kafka unisce alla brevità del testo un tale livello di espressione artistica

In una fotografia del 1911 si vede Thomas Mann su una spiaggia del Lido di Venezia, circondato da una compagnia di persone sorridenti. La caratteristica dell’immagine ha una valenza fortemente simbolica: il grande scrittore è immortalato in un gesto di saluto, ma ciò che è davvero particolare è che egli, in piedi su di un trespolo, è più alto di tutti gli altri di un numero consistente di centimetri. È la posizione davvero sua: di chi le cose le ha viste per primo, dall’alto, da sopra. La posizione dell’aquila.

Egli è tra i primissimi a capire il valore filosofico dell’opera di Nietzsche (mentre Heidegger portava ancora, per davvero, i calzoni corti), quando il grande vive ancora, seppur demente; tra i primi ad accorgersi della crisi in cui l’Europa è presa tuttora; tra i primi a capire l’importanza della democrazia in un’epoca di totalitarismi neri e rossi; tra i primi a capire la tragedia del popolo ebraico.

Nel 1901 dà alla luce i “Buddenbrook”, il grande romanzo in cui è messo a fuoco il processo di decadenza che ancora investe la famiglia borghese tradizionale. Nel 1922, undici anni prima dell’avvento al potere di Hitler, si schiera su posizioni democratiche, dopo il grande travaglio delle “Considerazioni di un impolitico”. Nel 1924 pubblica la “Montagna magica”, libro su quel grande malato che già allora era l’Europa. Nel 1929 vince il Nobel per la letteratura.

Nel 1933 fugge dalla Germania prima e dall’Europa poi, per ritornarvi soltanto a Seconda guerra mondiale conclusa. Nel 1938 manda a dire ai nazisti che la Germania era lì, dove era lui (dove il tedesco che era stato di Goethe era custodito, si potrebbe aggiungere).

In quegli anni pubblica: “Giuseppe e i suoi fratelli”, tetralogia a tema biblico in quattro volumi, grandioso omaggio alla cultura ebraica da parte del più grande scrittore tedesco allora vivente; “Carlotta a Weimar”, fantasia romanzesca a tema goethiano ed implicita rivendicazione dell’esistenza e della possibilità di un’altra Germania; il “Doktor Faustus”, deduzione, in forma di romanzo, del destino tedesco a partire dalla sua musica, per il quale si servirà della consulenza musicologica di Adorno.

Il matrimonio con Katia Pringsheim, contratto in gioventù, è la dimostrazione che dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Il fratello Heinrich come il figlio Klaus – morto tragicamente suicida nel 1949, senza suscitare nel padre particolari reazioni di dolore o di pietà (c’è anche una spietatezza nell’essere grandi) – entrambi scrittori, portano ad un livello di saga famigliare il talento letterario della famiglia Mann.

Per ciò che concerne la ricezione italiana, le recenti ritraduzioni e curatele di Luca Crescenzi e di Renata Colorni per la collana “I meridiani” di Mondadori, lavori concepiti sulla scia delle edizioni critiche nate in anni recenti in Germania, hanno dato ai lettori italiani la possibilità di esperire l’opera narrativa di Mann con maggiore consapevolezza.

Un esempio su tutti: il titolo “La montagna incantata”, con il quale i lettori italiani si sono familiarizzati con il grande romanzo è, letterariamente, un controsenso. “Der Zauberberg” deve essere tradotto in “La montagna magica”, perché l’aggettivo ha valore attivo, come nel “Flauto magico” (“Die Zauberflöte”) di Mozart, ed in questo modo è tradotto nelle principali lingue europee.

In questa sterminata ed immensa produzione, “La morte a Venezia” (1912) occupa un posto a sé, come una piccola perla di rara perfezione. Forse solo “La metamorfosi” di Kafka unisce, alla brevità della composizione, un tale livello di espressione artistica. Come non ricordare il memorabile film di Luchino Visconti, del 1971, con Dirk Bogarde nel ruolo di Gustav von Aschenbach?

Un uomo tutto rigore e morale della forma viene travolto dal demone di Eros e dalla paralizzante atmosfera mediterranea della città lagunare, carica di profumi e di lussureggiante bellezza, che noi italiani ben conosciamo.

Il giovane Tadzio che avrebbe dovuto essere veicolo di salvezza, porta, invece, il protagonista alla rovina. Ma Aschenbach fa esperienza di ciò che non aveva assaporato mai: il contrasto tra la luminosità apollinea e la profondità dionisiaca, che gli regalano, restituendolo alla vita, picchi emozionali che non aveva mai conosciuto. Il suo creatore, intanto, si è liberato di un’altra delle sue pelli, tirando dritto verso l’Olimpo della gloria.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lascia un commento