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Thomas Mann: la crisi e la speranza

“La Germania abita là dove è custodita la lingua di Goethe, ossia nella mia opera, non nel latrato da cani degli ordini delle SS”

Thomas Mann

Thomas Mann (6 giugno 1875 - 12 agosto 1955)

Quando, nel secondo dopoguerra, il Gruppo ʼ47 lo attaccava, dandogli del ferro vecchio, Thomas Mann rispondeva citando questi versi di Karl Kraus: “Io sono soltanto uno degli epigoni / che abitano nell’antica dimora del linguaggio”. Ma l’analogia con Kraus può essere ulteriormente estesa…

Non solo Mann fece parte, insieme a Kraus, Croce, Einstein, Freud, di quei patriarchi della cultura europea che, nati e cresciuti nell’Ottocento, esercitarono sullo spirito del secolo successivo un influsso indelebile. Ma, se si vuole stare al titolo di uno splendido saggio di Elias Canetti, contenuto in “La coscienza delle parole” (Adelphi) e intitolato “Karl Kraus, scuola di resistenza”, l’analogia tra Kraus e Mann può essere postulata proprio in questo senso.

Nel suo saggio, Canetti racconta come la fortissima personalità di Kraus lo spinse a formarsi, progressivamente, un proprio carattere e una propria identità letteraria. Inoltre, bisogna aggiungere, Kraus ci insegna a resistere anche alla cultura del mondo contemporaneo, a quella che oggi è diventata la globalizzazione.

La lezione di Thomas Mann è di segno diverso, ma può essere anch’essa posta sotto la costellazione della resistenza. Ovvio che siamo, qui, in uno spazio categoriale più ampio di quello della resistenza politica al nazi-fascismo, anche se l’opera di Mann è illuminante anche in questo senso.

L’ultimo ritratto del Mago

La categoria di resistenza, per quanto concerne Thomas Mann, può essere postulata sia dal punto di vista della sua grande opera letteraria, che da quello della sua vita personale – come ben illustra il romanzo biografico dello scrittore irlandese Colm Tóibín, intitolato “Il Mago” e pubblicato da Einaudi nel 2023.

Il Mago era l’affettuoso nomignolo con cui il grande Thomas era designato nella più stretta cerchia familiare, quella dei sei figli – Erika, Klaus, Golo, Elisabeth, Monika e Michael – e della moglie Katia, nata Pringsheim.

Il libro di Tóibín ripercorre tutte le tappe della vita di quel maestro del Novecento che Thomas Mann fu: la giovinezza a Lubecca e la madre di origini brasiliane. Gli inizi della sua grande carriera letteraria insieme al fratello Heinrich, che culmineranno nella composizione dei “Buddenbrook” (1901).

Il matrimonio con Katia Pringsheim e la nascita dei figli. La travolgente passione per la musica – sarà la famiglia della moglie, di origini ebraiche, a presentargli Gustav Mahler – e quella, altrettanto impetuosa, per gli adolescenti (addirittura per lo stesso figlio Klaus! forse l’unica significativa caduta nel male della sua intera vita).

La creazione di “La morte a Venezia” (1912). Il suicidio delle sorelle, Carla e Julia. Il rapporto tormentato con la politica, che sfocerà, durante la Prima guerra mondiale, in un acceso confronto con il fratello Heinrich e nella composizione delle “Considerazioni di un impolitico” (1918).

La successiva, e cruciale, svolta verso la democrazia, da parte dello scrittore tedesco più famoso al mondo – passaggio alla democrazia che avverrà nel 1922, parallelamente alla marcia su Roma del fascismo italiano e, dunque, molto tempo prima della presa del potere di Hitler, in Germania, nel 1933.

La composizione della “Montagna magica” (1924) e la vittoria del Nobel per la letteratura nel 1929. L’esilio nel 1933 e il rapporto doloroso con la Germania nazista, che lo porterà, nel 1938, ad affermare: “Dove sono io, là è la Germania” – frase capitale da leggere nel modo seguente: ‘la Germania abita là dove è custodita la lingua di Goethe, ossia nella mia opera, non nel latrato da cani degli ordini delle SS’.

Il periodo americano, il rapporto di reciproca stima con il presidente Roosevelt e la lotta ideologica a tutto campo contro il regime di Hitler. La tumultuosa azione dei figli maggiori Erika e Klaus, nello stesso periodo. La composizione di altri due capolavori: “Giuseppe e i suoi fratelli” (1933-1943) e il “Doktor Faustus” (1947) – periodo a proposito del quale, colpevolmente, Tóibín trascura di fare il nome di Adorno, il grande filosofo e musicologo che diede a Mann un aiuto prezioso nella composizione del “Doktor Faustus”.

Infine l’ultimo atto: il ritorno in Europa, il suicidio del figlio Klaus nel 1949, la composizione del “Felix Krull” nel 1954, ultimo dei suoi grandi romanzi. Poi la morte, che sopraggiunse nel 1955.

Fede e speranza

Per Hannah Arendt, fede e speranza furono le due essenziali qualità dello spirito, di cui la cultura occidentale è debitrice al cristianesimo. Volendo osservare il pianeta Mann, dunque, è possibile vedere, tanto sotto l’aspetto letterario che sotto quello biografico, come nella sua grande personalità si muovano due elementi fondamentali: la coscienza della crisi e la passione umanistica che vede trionfare la resistenza del carattere e della bellezza sulle avversità e le tragedie dell’esistenza, tanto personali che collettive.

Questo impegno totale verso l’arte faceva sì che Mann, da un lato, trascurasse la famiglia, dall’altro, sfruttasse tutte le sue esperienze, anche le più private, in funzione della composizione dei suoi capolavori narrativi. L’atteggiamento di Kraus e Picasso non era molto diverso: questo è l’aspetto demonico della personalità del grande artista.

L’umanesimo non è una ricetta nuova, è possibile dire. Si tratta dell’anima stessa dello spirito occidentale, almeno dai tempi di Pericle e Platone, ossia dal V secolo a. C. Non lo è, ma lo diviene se utilizzato come risposta ad una situazione completamente nuova: la crisi che investe l’Europa e l’Occidente, se non l’intero Pianeta (come sottolineato da Severino), da quasi duecento anni.

Il nichilismo, la morte di Dio, la decadenza della famiglia (come suona il sottotitolo dei “Buddenbrook” di Mann), la stessa epidemia di suicidi che colpisce la famiglia del grande Thomas, due guerre mondiali, la Shoah e la bomba atomica, quella strana malattia dello spirito che lo svuota dall’interno e lascia l’individuo come una marionetta senza fili.

A questo vuole rispondere l’energia, il carattere, la tempra che Mann prende a prestito dalla tradizione dell’umanesimo europeo, Goethe in primo luogo.

Si tratta di una grande risposta. È il modo in cui la civiltà autentica replica alle trasformazioni imposte dalla civiltà industriale e da quella bizzarra compagine-mondo che ha nome globalizzazione. Il Novecento è stato perfettamente consapevole di tutti gli snodi e le ferite della crisi europea.

Ma le risposte positive, costruttive, sono state poche. Si prenda quella di Heidegger: l’essere come dimensione dell’Aperto. Oppure quella di Adorno: l’utopia come spazio della redenzione messianica. Per quanto molto efficaci e forti, sul piano filosofico, difficilmente si tratta di un messaggio in grado di raggiungere lo smarrito uomo comune contemporaneo.

Mentre adesso, forse, in un appartamentino in Austria o in un campus americano o a Nuova Delhi, un giovane gode a pieni polmoni della sovrana bellezza della “Morte a Venezia” – e, intanto, pregusta la visione del film di Visconti del 1971 – uscendone rafforzato, maturato, rinvigorito. Di questo dobbiamo ringraziare l’ultimo patriarca della cultura europea