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“The World to Come” alla Mostra di Venezia e l’omosessualità nel cinema

Il nuovo film di Mona Fastvold con Katherine Waterston e Vanessa Kirby alla Mostra di Venezia, amore omosessuale “proibito” tra due contadine

Omosessualità Venezia

Mona Fastvold

Tema omosessualità a Venezia. È fondamentale avere la libertà di esprimere il proprio amore indipendentemente dall’orientamento sessuale e, negli ultimi tempi, il cinema ha iniziato a dare notevole spazio alle coppie omosessuali, che finalmente possono avere un modello in cui rispecchiarsi.

“The World to Come”, ecco il nuovo film di Mona Fastvold con protagoniste Katherine Waterston e Vanessa Kirby presentato alla Mostra di Venezia. Un amore “proibito” tra due contadine in una pellicola dal titolo emblematico che tradotto in italiano dà la speranza di un mondo futuro in cui l’omosessualità, si spera, non sarà accompagnata da pregiudizi o tabù.

«Amori così sono sempre esistiti. Anche se considerati proibiti», queste le parole della regista e ci auguriamo non rimangano proibiti per sempre.

Omosessualità a Venezia, la trama

È il 1 gennaio 1856 quando Abigail (Katherine Waterston) inizia a scrivere un diario contenente i suoi aspetti più intimi. È una donna che vive insieme al marito in una fattoria del Midwest. Dedita al lavoro, sa che nella sua vita non c’è spazio per nient’altro. La morte della figlia fa sprofondare la coppia in una profonda crisi ma, improvvisamente, Abigail incontra una donna che cambierà la sua vita: Tallie (Vanessa Kirby), dalla bellezza sopraffine appena trasferitasi con il marito Finney in una fattoria vicina. Tra le due inizia una relazione, spezzando la monotonia e la vuotezza delle loro vite. «Una storia d’amore profonda, una scoperta di felicità inaspettata che nessuna delle due ha i codici per definire. Un legame intellettuale, emotivo e sensuale tra due donne ordinarie, bloccate in ruoli e destini che accettano a scatola chiusa», queste le parole della regista.

Storia dell’omosessualità nel cinema: dal Novecento ai giorni nostri

Nei primi del Novecento l’omosessualità nel cinema non era vista in modo così scandaloso, purché fossero rispettati alcuni atteggiamenti socialmente accettabili. Infatti, il cinema statunitense mostra fin da subito coppie omosessuali o persone transgender anche se, queste categorie di soggetti, venivano rappresentate come trasgressive e fuori dagli schemi.

Con il Post Production Code, elaborato da Hays negli anni ‘30, gli omosessuali iniziarono a essere dipinti come assassini, maniaci, sadici, autolesionistici. Questo fino agli anni ‘60, quando i Moti di Stonewall apportarono modifiche all’immagine degli omosessuali che veniva data dal cinema.

Però anche negli anni ‘70 gli omosessuali venivano dipinti come outsiders e “stravaganti”, popolo della notte dedito alle trasgressioni.

L’immagine LGBT veniva associata a questi stereotipi fino alla metà degli anni 2000, in cui cambiarono le rappresentazioni di questa comunità.

Oggi è possibile vedere un’immagine diversa delle coppie omosessuali. Le quali finalmente vengono rappresentate più liberamente rispetto al passato, anche se ancora i passi da compiere sono tantissimi. Sul grande e piccolo schermo, infatti, si assiste a film e serie tv per lo più ambientate nel passato. Trapela l’intento di “nascondere” questo tipo di amore e tenerlo “segreto” appunto perché proibito. Anche l’omosessualità raccontata a Venezia narra di un amore taciuto e non accettato dalla società.

Perché i personaggi gay vengono spesso condannati a una funesta fine?

Anche nelle serie tv e nei film ambientati ai giorni nostri le coppie LGBT spesso sono caratterizzate da “stigmate” e condannate a un terribile destino in cui uno dei protagonisti muore tragicamente, spesso con un colpo di pistola all’addome.

Inoltre spesso mancano gli happy endings che caratterizzano i film della più ampia comunità eterosessuale.

Segno di “pregiudizi” duri a morire secondo cui le coppie omosessuali non meritano il loro lieto fine? Difficile dirlo. Sicuramente occorrerà del tempo affinché queste coppie rientrino nell’immaginario comune e non abbiano bisogno di rappresentanze specifiche che, nel tentativo di normalizzarle, non fanno altro che porle in categorie a sé stanti e renderle “diverse”.

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