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Stragi di Stato e la verità deformata. Io ero lì! Come potevo non sapere? (2 parte)

Ho atteso settimane prima di decidermi a scrivere con la massima onestà intellettuale la mia versione dei fatti sulle cosiddette Stragi di Stato

Vittorio Sbardella

Vittorio Sbardella

Il 2 Gennaio scorso, dopo la messa in onda dell’atteso sequel dell’inchiesta giornalistica di Report sulle stragi del 1992 e 1993 in Italia dal titolo “Una storia mai risolta di 30 anni fa” (la prima parte risale alla puntata del 23 Maggio 2022 – LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO), un vero e proprio terremoto di emozioni, ricordi e certezze smarrite, mi hanno tolto il sonno già da tempo troppo leggero per l’incedere dell’età.

Le Stragi di mafia del 1992 e 1993

Ho atteso diverse settimane prima di decidermi ad utilizzare il mio piccolo spazio mediatico per scrivere con la massima onestà intellettuale la mia versione dei fatti, dal mio punto di vista. Ovviamente non senza aver fatto ricorso a tutto l’archivio di ricordi e documenti di cui potevo nell’immediato disporre.

Ripercorriamo dunque, con ritrovata lucidità, quanto sarebbe emerso nella attenzionata puntata di Report.

La puntata “incriminata” di Report

Per oltre 40 minuti, Sigfrido Ranucci, da consumato “barman” di Rai 3 ripropone gli stessi cocktail confezionati il 23 maggio 2022, utilizzando le medesime tecniche. Un riepilogo frenetico delle tesi “provate” attraverso personaggi di varia umanità, ma tutti concordi nell’attribuire la direzione dell’epoca stragista ad una sinergica regia tra Mafia, P2, Destra eversiva, Servizi segreti deviati, Politica istituzionale e Potere ecclesiastico.

Poi, un sempre più compiaciuto Ranucci, appone l’annunciato “tassello” mancante. Lo fa soprattutto attraverso due lunghe interviste ad Antonio D’Andrea, all’epoca Vice Segretario Nazionale di una evanescente Lega Meridionale e Massimo Pizza, che si autoproclama “agente del Sismi appartenente a Gladio” (qualifica sempre smentita dai vertici del Servizio Segreto Militare).

Antonio D’Andrea, con l’aplomb del leader politico “navigato”, ripercorre l’epopea delle leghe meridionali e dei suoi “eroi”: Stefano Delle Chiaie, Vito Ciancimino, Licio Gelli oltre ad un parterre di “filomafiosi”. Tutti “sostenuti” con 310 miliardi di vecchie lire da Monsignor Donato De Bonis (vero dominus dello Ior tra il 1989 e il 1993), da Francesco Cossiga e da Giulio Andreotti. Obiettivo: dividere e destabilizzare l’Italia.

La fantomatica Lega meridionale

Con tale idea la “Lega Meridionale” aveva raccolto da imprenditori meridionali in odor di mafia, 100 miliardi di lire, che, quando D’Andrea decide di staccarsi creando la “Lega Meridionale per l’Unità Nazionale”, diventano un bottino ambito. Parte di tale ingente somma sosterrà le attività politico-istituzionale di ambienti vicini ad Andreotti, in particolare il gruppo con a capo Vittorio Sbardella, che così avrebbe finanziato e rilanciato il movimento cattolico “Comunione e Liberazione”.

D’Andrea ricorda anche che Vito Ciancimino sarà avvicinato dal generale Mori (e non il contrario) al fine di avviare quella Trattativa Stato-Mafia con Totò Riina per nascondere quei segreti “indicibili” dell’Italia. Sulla stessa linea si pone Massimo Pizza, che definisce la “Lega Meridionale”, “la longa manus di Cosa Nostra”.

Racconta a Report anche di un incontro avvenuto nel 1990 a Roma presso l’hotel “Visconti” tra i vertici della criminalità mafiosa calabrese e siciliana, Riina incluso, il nipote di Salvo Lima, Vittorio Sbardella (quale rappresentante della corrente andreottiana) e alcuni vertici della P2, oltre all’onnipresente Stefano Delle Chiaie.

La riunione, secondo l’auto-dichiarato “agente 00” del fantomatico settore “K” del Sismi (quello con licenza di uccidere, tanto per intenderci) serviva a definire le “linee guida” del piano di destabilizzazione dello Stato. È grazie a queste due “decisive” interviste convergenti sul diretto coinvolgimento di Vittorio Sbardella, che il “principe” Ranucci si trasforma da barman ad atleta di salto in alto che presuntuosamente alza l’asticella oltre la misura consentita ai comuni mortali, ritenendosi pronto a battere qualunque record.

Le origini e l’idea politica del gruppo Sbardella

Maurizio Giraldi, soprannominato il “Barone”, è stato un Deputato Parlamentare eletto nelle liste della DC nel 1992. Prese parte a quella legislatura per soli 8 mesi, morendo per le complicazioni dovute ad anni di debilitante dialisi. Quasi sconosciuto al grande pubblico, con un passato nell’estrema destra di Ordine Nuovo diretto da Pino Rauti, alla fine degli anni 60’, attraverso una attenta e iper dotta rielaborazione del suo pensiero politico, supportato da conoscenze profonde in campo teologico, filosofico ed economico, abbracciò la DC come partito ideale e più confacente al suo rinnovato credo, costituendo un binomio ideologico-politico e un connubio indissolubile di vita con Vittorio Sbardella, anch’egli proveniente dalla Destra Nazionale.

Parlava correttamente il francese, il tedesco e il polacco e intratteneva rapporti di continuo confronto con i più influenti rappresentanti delle culture religiose, politiche e ideologiche di quel periodo, da destra a sinistra passando per il “fenomeno radicale”. Ma soprattutto era un ricercatissimo ghost writer per i discorsi di tanti politici dell’epoca, di qualunque bandiera. Originario della Provincia di Rieti, a Roma era solito soggiornare presso la residenza di Don Luigi Di Liegro, con cui intratteneva un privilegiato rapporto quanto a confronto ed elaborazione del pensiero cattolico moderno.

Soprattutto, il “Barone”, della DC sbardelliana è stato l’indiscusso numero due. Propulsore ideologico e strategico, era l’eminenza grigia di un gruppo che partendo dall’impegno a sostegno del leader Giulio Andreotti, in brevissimo tempo era diventato, sotto l’effige dello scudo crociato, una forza politica a sé stante estesa sull’intero territorio nazionale.

Capace di esprimere una propria rappresentanza in posizioni chiave di vari Comuni e Regioni italiane, si era posta ai vertici di un consolidato movimento cattolico come Comunione e Liberazione e si era dotata con Il Sabato di un proprio organo di stampa.

Dichiarato baluardo contro il cattocomunismo imperante, che allora (come oggi!) godeva del forte appoggio del gruppo editoriale facente capo a “La Repubblica” e foraggiato dal “capitalista boiardo” Carlo De Benedetti, Sbardella e “i suoi”, proprio dalle colonne del “Sabato”, in piena antitesi con l’avventata ricostruzione di Report, si erano distinti per un dichiarato antiatlantismo. Soprattutto in occasione della controversa Guerra del Golfo.

Tutta questa forza e questo potere ebbero fine non tanto per il ciclone “Mani Pulite” o per l’inchiesta “Intermetro”, quanto per la prematura scomparsa per malattia, prima di Maurizio Giraldi (Dicembre 1992), poi dello “Squalo” Sbardella ( Aprile 1994).

Io, il Barone, gli amici

Quando, alla fine degli anni 80’, ho incontrato il Barone per la prima volta, era da poco stato eletto Sindaco di Cittaducale (Rieti). Presentatogli come “uno di famiglia” (di lì a breve avrei sposato la nipote), subito mi invitò a Roma a far parte della segreteria politica sbardelliana in Via Pompeo Magno.
Mi “reclutò” quasi subito e diventando il suo delfino conosciuto come “nipote del Barone”. Per gli anni a seguire, fino alla sua elezione a Deputato, praticamente tutte le mie giornate si sarebbero “arricchite” dei suoi dialoghi, delle sue confidenze, dei suoi proponimenti politici.

Occupavamo una grande stanza comunicante con lo studio di “Vittò”, con cui in tempo quasi reale venivano condivisi gli esiti di incontri, telefonate, strategie e tutto quanto riguardasse il gruppo politico. Un via vai incessante dell’intero universo politico istituzionale ed ecclesiastico, personaggi di livello assoluto che all’epoca manovravano le leve del potere costituito.

Solo successivamente, poco prima delle rispettive scomparse, Vittorio Sbardella avrebbe trasferito il suo ufficio nella sede “meno trafficata” di Piazza Augusto Imperatore lasciando per intero nella disponibilità delle sue aumentate “truppe” la sede storica di Via Pompeo Magno. Ovviamente era fissa anche la mia presenza al laboratorio di formazione politica che il “Barone” aveva con passione istituito per la classe dirigente presente e futura degli attivisti più assidui.

Ma le confidenze più intime, i programmi più ambiti e quindi più segreti, le storie del passato meno narrate, il Barone li condivideva con il sottoscritto durante le ore passate nel traffico della capitale, quando a giorni alterni lo accompagnavo presso l’Aurelia Hospital per la debilitante seduta di dialisi, o nei ritorni serali presso l’alloggio messogli a disposizione da Monsignor Di Liegro.

Rapito dal suo sterminato sapere, avevo ottenuto la sua completa fiducia dedicandogli praticamente tutta la mia giornata, anche fino a tarda sera. Naturalmente, in quella mitica sede di Via Pompeo Magno erano nate amicizie, sostenute dall’impegno politico e dalla mia “ambita e invidiata vicinanza” con il “Barone”.

Amicizie che ancora oggi ricordo con piacere e che sento vive: Pietro Sbardella (figlio del leader scomparso), Giorgio Ciardi (oggi nel Direttivo di Fratelli d’Italia), Roberto Rao (già portavoce e poi Deputato per l’UDC di Casini), Enrico Gasbarra (fondatore del Partito Democratico, già Eurodeputato PD e vicesindaco veltroniano), per citarne solo alcuni. Con loro e con moltissimi altri, che in seguito si sarebbero ridistribuiti in tutto l’arco delle forze parlamentari, ero parte, in quegli anni, di uno schieramento di forze e di idee che si riconoscevano senza sé e senza ma, nella leadership di Vittorio Sbardella e nei programmi politici strutturati insieme a Maurizio Giraldi.

Io ero lì

Tornando all’inchiesta di Report, dunque, io ero lì! Possibile che non abbia mai avuto contezza di questi raccontati misfatti? Proprio io, che avevo aderito convintamente agli assunti di quel gruppo politico? Come potevo non sapere? Sono stato “complice”, e quindi lo sono tuttora? Nessun alibi da contrapporre per quanto abbia ben chiare, sugli argomenti trattati da Report, le posizioni espresse, intimamente e pubblicamente dai miei punti di riferimento politico dell’epoca.

Rapporti conflittuali e fortemente critici con la massoneria più o meno deviata. Disprezzo e derisione di certa folkloristica estrema destra. Contrapposizione alle forze politiche e diplomatiche subalterne e sottomesse all’egemonia atlantista (all’epoca l’Europa non contava nulla). Consapevolezza dell’invadente presenza mafiosa da combattere con sofisticato realismo e non attraverso “l’interessato moralismo” dell’”antifalconiano” Leoluca Orlando.

Ma, ancor più plasticamente del sottoscritto, in quegli anni troppo giovane politicamente e privo di alcun ruolo, possibile che i vari Pietro Giubilo (già Sindaco di Roma), Pier Paolo Saleri (già Presidente Acea), Rodolfo Gigli (già Presidente della Regione Lazio) e tanti altri, non avessero contezza degli scellerati coinvolgimenti? Perché nessuno degli (ex) sbardelliani in vita (ce ne sono ancora tantissimi) è stato intervistato dai giornalisti segugi “sguinzagliati” da Report?

La pubblica accusa attraverso la Rai

Anche perché, chi sono in realtà i due pubblici accusatori, Pizza e D’Andrea, valorizzati con l’imprimatur di affidabilità che solo la TV di Stato può regalare? Sicuramente sono in coppia quando vengono arrestati nel Maggio 2006 nell’ambito dell’inchiesta “Somaliagate”, come riportato da un articolo sulla Gazzetta del Mezzogiorno dal sottotitolo significativo “Una banda specializzata da anni nelle truffe ai danni di imprenditori”.

Massimo Pizza in particolare viene considerato in una informativa dell’Antimafia reggina quale soggetto poliedrico coinvolto in diversi indagini, accostato ad ambienti massonici e ai servizi segreti deviati, mentre viene ritenuto dalla Procura di Palermo come inattendibile.

Per i magistrati di Potenza è un “soggetto dai comportamenti truffaldini ai limiti del patologico”, dal quale il Pm Henry John Woodcock durante gli interrogatori nell’ambito della suindicata inchiesta su varie truffe a danno di imprenditori, riceve “dichiarazioni spontanee” (un verbale di ben 326 pagine!!!) nelle quali si era definito consulente aziendale, bibliografo, agente provocatore, analista, scambiatore di notizie, venditore di informazioni, truffatore ma non musulmano.

Lo stesso PM lo definisce “figura dalle diverse identità e dai più disparati ruoli”, le cui parole “meritano un’attentissima e ripetuta lettura ….il Pizza infatti, come tutti i grandi truffatori e, soprattutto, come tutti i grandi millantatori, accompagna nelle sue esternazioni, a una serie indefinita di bugie e menzogne, la rappresentazione di alcune verità”.

Appunto, rimane da appurare quali…

Al di là delle fonti “autorevoli” propinateci da Report, fonti il cui linguaggio del volto espresso, per l’elementare interpretazione, non meriterebbe posto neanche nel primo episodio della serie “Lie to Me”, andrebbe piuttosto ricordato l’esito giudiziario del processo sulla trattativa Stato-Mafia e di altri procedimenti connessi. In essi, troppo spesso, il “castello di sabbia” costruito dalla pubblica accusa frana (purtroppo) sotto le ondate impetuose contenute nelle motivazioni di decisioni giudiziarie dove accanto all’iperbole usata “assai probabile”, appare spesso l’avverbio dubitativo “forse”.

Speriamo che almeno il secondo grado del processo di Bologna possa confermare la sentenza di primo grado. Ma questa è un’altra storia.

Supplemento d’indagine sulle Stragi di Stato

E allora, esimio Sigfrido Ranucci, mi vorrà scusare per i toni un po’ irriverenti utilizzati riguardo agli esiti giornalistici della sua inchiesta. Ad onor del vero, ritengo che questa ancora non possa dirsi conclusa. Soprattutto se anche Lei, in qualità di importante giornalista d’inchiesta, considera il dubbio come una religione cui ispirarsi.

Se vorrà sciogliere i dubbi sulle verità traspirate da quanto andato in onda, se vorrà ritenere l’indagine ancora aperta, allora, facciamolo insieme questo “supplemento di indagine”. Magari in modo più equilibrato e più rispettoso verso il Giornalismo in quanto arte di raccontare la realtà, la cui giusta pratica consente di innalzarci a “storici dell’istante” (definizione di A. Camus).

Un metodo più complesso dunque, che non preveda di avvalorare l’attendibilità delle tesi espresse attraverso la mera riproduzione ammiccante di dichiarazioni acquisite sul campo ristretto di testimoni compiacenti e interessati.

Un metodo più impegnativo, e a volte meno appagante rispetto al teorema ipotizzato o solo desiderato, in grado di far coincidere le diverse verità (storica, processuale, giornalistica), evitando di comporre, più o meno consapevolmente, una verità deformata.

Proprio come deformati sono i mostri pietrificati di Villa Palagonia.