Sanità pubblica: i nostri anziani come numeri ma il Sud accoglie e salva, il Nord dimette
Negli ospedali del sud mancano i fondi ma non manca l’anima di medici e infermieri che curano con dedizione e salvano vite

Chirurghi, pexels, zeynep, ozata
C’è un’Italia che cura, e un’Italia che taglia. Una che salva, e una che si nasconde dietro la fama. C’è un’Italia che ha ospedali rinomati e padiglioni intitolati a luminari della medicina, ma che spesso si perde nel labirinto delle liste d’attesa, dei numeri da gestire, degli errori chirurgici sotto pressione. C’è un’altra Italia, più dimenticata, che lavora in silenzio, in pronto soccorso senza ventilatori, in sale operatorie surriscaldate dove le mani dei medici diventano ali e i bisturi, poesia.
Un piccolo interventino…
A mia madre, in un rinomato ospedale del Nord, è stato detto di salire a settembre per “un piccolo interventino”. Era appena stata dimessa, dopo due operazioni in laparoscopia, con un danno a organi che prima erano sani. Era rientrata in Calabria piegata, febbricitante, con un tempo stimato e irrisorio per “riprendersi”. Invece, in meno di 72 ore, è finita d’urgenza sotto i ferri a Polistena, dove un Chirurgo A.P. ha dovuto ricostruirle gran parte della parete intestinale lacerata da chi, altrove, l’ha operata in fretta. Dove non ci sono lustrini e luci della ribalta, c’è stato rigore, dedizione e un atto d’amore chirurgico. In un ospedale dove mancano i fondi, ma non l’anima.
Mio padre, anni fa, a Locri, è stato salvato con l’impianto di un pacemaker in meno di mezz’ora. Senza strombazzamenti, senza eccellenze auto-proclamate. Solo prontezza e coraggio. A Catanzaro, all’Ospedale Pugliese, gli hanno estratto una colecisti impazzita nonostante una complessa protesi aortica che avrebbe richiesto robotica. Hanno scelto di rischiare. Hanno scelto di salvare.
Ma che vuol dire malasanità?
E allora viene da chiedersi: cos’è davvero la malasanità? Quella del Sud povero e rattoppato, dove i medici combattono con mezzi di fortuna, o quella di certe strutture del Nord dove si dimettono i pazienti senza diagnosi, dove l’intervento viene fatto in velocità per liberare il letto, dove il bisturi è anche un orologio che ticchetta troppo in fretta?
Parliamone davvero, ora, con verità: la sanità italiana non ha un solo volto. I tagli lineari degli ultimi anni, le spese militari che superano quelle per la salute, le cliniche private del Nord imbottite di finanziamenti — mentre al Sud si litiga per un anestesista reperibile o per una TAC funzionante — sono l’ecatombe silenziosa di un sistema che ha smesso di guardare al cittadino e guarda solo al bilancio.
Eppure, i medici del Sud, se avessero le stesse strutture, le stesse apparecchiature, le stesse risorse, farebbero tremare il palcoscenico delle eccellenze. Non avremmo più bisogno di spedire i nostri cari a mille chilometri, come pacchi postali, in cliniche dove i nostri genitori vengono trattati da numeri, da statistiche. Perché lo dico senza retorica e con tutta la voce che ho in corpo: qui, se ci fosse equità, si curerebbe con grazia e rigore, con intelligenza e rispetto, con amore e con tempo.
Terra del sud, oggi come nel secolo scorso
Per ogni giovane oncologico che parte, per ogni madre che si ammala, per ogni neonato a cui si nega il diritto all’indagine tempestiva, per ogni paziente fragile che affronta viaggi infiniti in cerca di un diritto che dovrebbe essere ovunque — io, figlia di questa terra di Calabria, non posso più tacere.
E vi chiedo: dove siete, quando un paziente meridionale muore per un errore al Nord? Dove sono i titoli, i giornali, i ministri?
Pretendiamo una sanità pubblica che sia pubblica davvero. Equa, umana, distribuita. Pretendiamo rispetto per chi cura e per chi viene curato. Non c’è pace in un Paese che divide la salute in fasce geografiche. E non ci sarà giustizia finché la vita dei nostri cari varrà meno di un letto da liberare o di un ticket da pagare.
Per ogni figlio dell’ingiustizia sanitaria: alziamo la voce, pretendiamo futuro. Pretendiamolo qui e adesso.
Antonella Multari