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Report Sanremo 2024: cosa salvare e cosa no del Festival della Canzone italiana

Il festival di Sanremo non è più una gara di canzoni e allora coraggio: andate fino in fondo e cambiate una volta per tutte il senso del programma

Sanremo 2024, Amadeus e Giovanni Allevi

Sanremo 2024, Amadeus e Giovanni Allevi

In vista di un cambio di gestione da Amadeus a non si sa chi, si potrebbe ipotizzare anche un cambio di formula? Visti i successi di audience riesce difficile che alla Rai ci possano pensare ma è proprio quando sei il primo che devi cambiare, se vuoi restarci.

Il 65% di audience della prima puntata non ammette discussioni, i numeri della seconda serata pure. La formula vince e ogni anno si riconferma. Ma ha ragione Amadeus quando dice che basta così, che non ha intenzione di continuare. Anche perché, diciamola tutta, nella prima puntata non si sono viste innovazioni che facciano impressione.

Diciamo che Sanremo vince anche perché quando inizia la kermesse canora, il mondo della televisione si ferma. Non c’è concorrenza, tutti, anche le reti non Rai, sembra non abbiano altro di cui parlare. Per tacito consenso quando c’è il Festival si chiude, tanto i pubblicitari lo sanno e non investono sulla concorrenza.

Le stilettate di Gino Paoli: esagera ma c’è del vero

Gino Paoli con il vantaggio che gli deriva dall’età non vuole più a mordersi la lingua e a proposito del Festival ha detto che “una volta le canzoni di merda venivano escluse da Sanremo, ora sembra che ci vadano solo quelle.” Gino esagera, perché almeno quelle della Berté, Diodato, Mannoia e Annalisa a me sono piaciute e anche a molti critici, mi pare. Ma perché dovrebbe fare dei distinguo Gino? Che gliene…

I critici del Festival ci sono sempre stati, intendiamoci e io, per esempio, non sono mai stato un fan della manifestazione. Che sia una grande kermesse è cosa ovvia e chi non l’ammette sa di mentire per ripicca o dabbenaggine. Ma dirò tranquillamente che a me non è mai piaciuto. Quando ho lavorato in Rai come autore, ho sopportato con fastidio quelle settimane in cui tutto dentro e fuori l’azienda, sembrava dover rendere omaggio a quell’evento.

I programmi si stravolgevano, le scalette cambiavano, si doveva solo parlare di gossip, canzoni, vestiti, trucco, ospiti internazionali. Mandare troupes a Sanremo, farsi accreditare per tempo. Una volta sono stato costretto anche io ad andarci, anzi più d’una volta, ora che ricordo meglio. L’avevo rimosso. Per me che amo il rock, il blues, tutta la musica bella, quando è cantata da grandi interpreti, quella manifestazione è qualitativamente “robetta” di cui io posso fare a meno. Ma sarei sciocco se non riconoscessi il grande seguito di pubblico, almeno da parte degli Italiani, perché vi assicuro che all’estero non ne sono affascinati.

Il Festival non lo puoi snobbare, rischi che nessuno ti ascolti

Un fenomeno come il Festival di Sanremo non si può snobbare, anche quando non interessa e non lo si guarderà, non si può misconoscere l’importanza che assume nel mondo della comunicazione e dello spettacolo televisivo in Italia, nelle settimane che precedono e che seguono la manifestazione canora.

Ogni anno grazie al Festival la Rai riesce a rimpinguare le sue casse e a resistere per altri 12 mesi. Se non ci fosse il Festival sarebbero quasi alla canna del gas. Merito delle Rai del passato che lo costruirono non più come una semplice rassegna di canzoni, ma come un vero spettacolo televisivo, con le sue luci, le scene, le scale da scendere, le passerelle, gli imprevisti calcolati, gli ospiti internazionali, le polemiche che fanno parlare e scrivere, le rappresentazioni del paese che si possono citare, ospitare, sostenere.

Nell’ultima edizione 2024 si sono ridotti a ripensare agli imprevisti delle edizioni passate, giacché, malignamente pensiamo, non ne sono “previsti” di nuovi. È un po’ come citarsi addosso. Alla 74esima edizione ci sta, direte voi, ma significa che siamo alla frutta, bisogna cambiare!

Le vecchie glorie sono tutte confinate a “Domenica Inps”

Si dice che il valore del Festival sta nel fatto che unisce gli Italiani, anche più della Nazionale di calcio, Mondiali a parte. Forse perché adesso il calcio non sta attraversando il suo miglior momento. L’Italia intera si ferma dal martedì al sabato per guardare lo spettacolo, sparlare dei vestiti delle signore, e oramai anche di quelli dei giovanotti. In molti rimpiangono i nomi classici della musica leggera. Si ricorda Toto Cutugno, ci si dimentica di Claudio Villa. Si applaudono i due reduci dei Ricchi e Poveri e si osannano i tre tenori de Il Volo come ultimi rappresentanti della canzone melodica, ormai ridotta a pochi esemplari nella gara.

I vari Vianello, Bobby Solo, Tiziana Rivale, Dallara, Vandelli, l’escluso Al Bano e compagnia, al massimo fanno da cornice a Domenica Inps, come è stata ironicamente chiamata la serie di puntate pre festival di Mara Venier. In concomitanza con la protesta degli agricoltori Fiorello ha anche immaginato che Al Bano marciasse alla testa dei trattori sul Festival. Vero che le canzoni, specie quelle degli anni ’60-’90, sono la nostra colonna sonora e che per provocare oggi bisogna cantare “Bella Ciao” e dichiararsi antifascisti, dalla sala stampa del Festival, perché se lo fai al Teatro alla Scala la Digos viene a identificarti, mentre se fai un’adunata paramilitare e il saluto fascista ad Acca Larentia, era solo un gesto puerile di qualche povero nostalgico.

Sul palco si alternano sconosciuti dai nomi impossibili, che miagolano tutti la stessa canzone e vi sfido a ricordarla un minuto dopo

Tra le prime cose da cambiare ci sarebbero le canzoni e gli “artisti” da mandare in gara. Dei numeri uno restano pochi residuati ma che sanno ancora lottare come leoni. La maggior parte dei partecipanti sono per me degli illustri sconosciuti e ancor più lo restano per il resto dell’anno. Nomi che sembrano usciti da un magazzino Ikea, cantano pezzi noiosi, penosi, che il giorno dopo nessuno più si ricorda, se non ci fossero radio, tv e web a imporli in continuazione. Hanno un identikit preciso. Forse escono dallo stesso magazzino. Sono piccoli, capelli rasati alla Platoon, indossano giacche e cappotti di due taglie superiori, scarponi militari, occhiali neri di ordinanza, hanno voci nasali, stonano, ma tanto parlano più che cantare.

Non si capisce cosa dicono, mangiano il microfono e camminano come scimmie in gabbia, su e giù per il palcoscenico, apostrofando un pubblico di ragazzine in delirio. Hanno tatuaggi su tutto il corpo, oramai anche sul cranio, la fronte, le orecchie, gli avambracci. Un giorno quando avranno 65 anni e vorranno disfarsene dovranno accendere un mutuo per cancellarli. Se poi vai a vedere che dicono i tatuaggi ti cadono le braccia. Date, ex fidanzate, la mamma, la squadra del cuore. Non sono pirati sono bambini. Chiaro che è tutto un sistema che produce personaggi e brani, per un pubblico che sembra subirli e che li cerca nelle radio e sul web. È un meccanismo che lega insieme produttori, case discografiche, moda, radio, Festival. Se non ci fosse il Festival non li vedremmo mai. Chiaro che Amadeus fa parte, forse suo malgrado, di questo mondo.

La moda sembra divertirsi a ridicolizzarli. Loro ci stanno pensando di risultare più riconoscibili, più distinguibili

Personaggini che la moda veste o sveste, a partire dalle apparizioni sul palco, con stili improbabili, che ricordano le sfilate recenti con le immagini dei cavalli di Stella McCartney e i cani e i maiali di Collina Strada, dove si giunge ormai anche a deturpare fisici e volti di graziose modelle e bei modelli con il make up o decorando le orecchie e le code delle parrucche, con t -shirt assurde nei colori, nei tessuti e nelle forme. Giacconi, pelliccioni, scarponi, e poi tutto questo funereo “all black” anche basta!  Manco fossimo alla presentazione della nazionale neozelandese di rugby.

Pare che per il prossimo inverno vadano di moda gli amici pelosi. Dargen D’Amico ne sa qualcosa, con gli orsacchiotti cuciti sulla giacca e sugli stivali, mentre fa una operazione di dubbio gusto sulle morti dei piccoli immigrati. Più volte la stampa ha riportato modelli, più che modelle, addobbati con abiti che li rendevano ridicoli, prototipi di maschi decaduti, ormai vilipesi, bistrattati da una moda che, è evidente, si vendica su di loro con forme irriverenti.

A Sanremo se ne vedono i risultati nelle acconciature e nelle tute, magliette e gonne indossate dai cantanti. Se togli loro i vestiti e li lasci con gli occhiali neri, che per regolamento Rai, immagino, sono costretti tutti a indossare, non li riconosci uno dall’altro e non li riconosci neanche se chiudi gli occhi e li sente miagolare aggrappati al microfono.

Una festa della rottura degli schemi affinché in realtà nulla cambi

La moda sembra essersi impossessata della musica, dello spettacolo. Se n’è impossessata creando dei numeri da baraccone, al grido della innovazione e della rottura degli schemi. Sono anni che di rotture ce ne sarebbero ma non vedo grandi passi avanti nel Paese, semmai il contrario. Più si rompono gli schemi sul palco dell’Ariston, più gli Italiani non vanno a votare o votano i conservatori. Insomma il Festival ormai è come Natale e come Carnevale o come Halloween. Una festa circoscritta dove tutto è permesso, compreso stonare e cantare male pessime canzoni, purché nulla cambi.

Da Sanremo di belle canzoni ne escono forse una o due all’anno non di più, il resto fa rumore, si, ma per poco tempo, poi rientra nell’anonimato mentre i brani dagli anni ’60 agli anni ’90 sono ancora sulla bocca di tutti. Se davvero volessimo un Festival in cui la musica diventi occasione di rottura e innovazione, allora dovremmo affidarci a grandi musicisti, non solo italiani, con pezzi originali, forse a band, gruppi musicali che abbiano alle spalle anni di gavetta e idee da proporre.

Amadeus impersona il senso più profondo del Pippobaudismo nazional popolare

Devo riconoscere ad Amadeus, Ama per gli “amici” (al Festival sono tutti finti amici), di essere la nuova versione del Pippobaudismo nazionale. Riesce a destreggiarsi e a farsi amare da tutti per la sua bonarietà, ma non ci casco. Non credo affatto sia persona mite. Del resto dove si deve dire parecchi NO e lo deve fare senza litigare con nessuno ma con fermezza non si può essere remissivi e buoni. Questa volta è toccata al povero, si fa per dire, Al Bano.

Sarebbe come se alla festa del Governo non invitassero La Russa, chiaro che se la sarà legata al dito e la farà pagare. Fiorello, l’unico vero talento della tv nazionale, è la gamba che regge il Castello. Con Fiorello cadi sempre in piedi. La sua ironia e capacità di improvvisazione lo mette al riparo e mette al riparo Amadeus da ogni buco o sorpresa. La trovata di fargli fare il co-conduttore è una presa per i fondelli.

Infatti fin dalla prima serata è salito sul palco, dove non doveva mettere piede, se non l’ultimo giorno. Genialmente Fiorello l’ha risolta con il suo avatar cretino creato dalla Intelligenza Artificiale. Un non lui che fa quello che vuole lui. Il fatto vero è che Fiorello ce deve sta… e non c’è bisogno di inventarsi scuse. Secondo me ci sarà fisso tutte le sere.

Il meccanismo delle votazioni è più complicato (e falso) del Rosatellum

Basta con queste votazioni complicate: e la sala stampa, e il pubblico da casa, e i sanremesi a passeggio, e i residenti delle RSA, e le radio private sparse nella penisola, e la radio Rai relegata nel bugigattolo come fosse il confessionale del Grande Fratello Rap.  Cantano, una due volte e poi si votasse pure, ma proprio perché se non c’è la gara il pubblico non ci sta, perché sennò a che serve votare se poi il vero giudizio è quello del mercato, di chi sceglie le canzoni nei mesi successivi? 

Facciamo che la classifica sia provvisoria, si decide alla prossima edizione chi ha vinto il festival dell’anno precedente. Poi a queste giurie che nessuno vede chi ci crede? Via su, non siamo più bambini. Se ci deve essere una giuria voglio vedere le palette alzarsi, voglio vedere il giudice Malgioglio preso a fischi quando pure esprime giudizi da persona competente, anche se sotto un mascheramento che gli toglie ogni affidabilità.

E la Cuccarini? Chissà perché è stata ripescata dal cesto dei ricordi proprio lei. Qualcosa mi odora di “segnalazione politica”, anche se una star della tv come la signora, non dovrebbe averne bisogno ma gli anni passano per tutti e Amadeus forse cercava qualcosa di maggior richiamo. Lo si deduce dagli altri tre nomi: Mengoni, Giorgia e Teresa Mannino.

Gli ospiti che non sanno mai cosa fargli fare

Chiamano gli ospiti internazionali e sono inevitabilmente americani: John Travolta o Russel Crowe e poi? Che gli fai fare sul palcoscenico in pochi minuti? Parlano male italiano, recitano su copione, non sanno improvvisare. Almeno Gorbaciov venne a fare una intervista e Fazio gliela fece. Zlatan Ibrahimovic se non altro ha dimostrato di saper recitare delle battute, forse scritte da Clericetti (il più democristiano degli autori). Anche questo degli ospiti stranieri è un meccanismo assurdo, costoso e che non so quanto renda.

In questo periodo si parla molto del fenomeno degli anni ’90 “Non è la Rai”, trasmissione cult di Gianni Boncompagni che veramente cambiò il modo di fare spettacolo in tv. Iniziò con una conduttrice, la Bonaccorti, e riuscì a disfarsene. Gli imposero un giovane e bloccato Bonolis e lo relegò ai giochi, per poi cassarlo definitivamente nell’ultima edizione, dove si scatenò tutta la filosofia Boncopagnesca. Niente scene, solo luci, cento ragazze finte maggiorenni, in costume da bagno, quindi anche i costumi azzerati, niente copioni, niente ospiti, niente di niente. Solo ragazzine che cantano, ballano, ridono, giocano a fare le sexy.

Riuscì a piacere a grandi e piccini con il quasi nulla. Lanciò una ventina di personaggi da zero. Non dico di proseguire su quella strada ma anche insistere con “Signore e signori, ecco a voi…” dopo che c’è stato Boncompagni, che Celentano ha inondato di silenzi la tv ed eliminato le presentazioni, dopo Enzo Trapani che ha inventato uno show tutto di comici, dopo che Raimondo Vianello ha inventato l’anti show, dove si denigra quel che si mostra, ancora siamo al Festival con presentatori, orchestra, gara e vincitore?

Tanto non ci credono più neanche loro che riempiono la serata di spettacolini, gag, coinvolgimenti del pubblico in sala, incursioni del guastatore Fiorello e di altri che verranno. Il festival non è più una gara di canzoni e allora abbiate coraggio. Andate fino in fondo e cambiate una volta per tutte davvero questo programma, per farne il prototipo di una tv che diverte insegnando, che fa crescere chi lo guarda, che quando ti alzi, dopo i saluti finali, ti ha lasciato qualcosa in testa.