Referendum e volantini CGIL: la denuncia di un dipendente di Poste italiane
Volantini, bollettini e raccomandate: la voce di un dipendente delle Poste e una comunicazione sindacale trasformata in leva politica

C’è qualcosa di particolare nel modo in cui si vive la comunicazione dentro un luogo come l’ufficio postale. È uno spazio dove la gente entra per compiere un’azione pratica – spedire una lettera, ritirare una pensione, pagare una bolletta – ed è anche, per molti, l’ultimo baluardo di prossimità istituzionale, un presidio civico. Ecco perché ogni parola, ogni messaggio affisso o distribuito lì dentro ha un peso diverso rispetto a quando lo si incontra sui social o in una piazza.
E proprio lì, in queste settimane, sono comparsi i volantini della CGIL che promuovono i referendum del prossimo 8 e 9 giugno. Li trovi appoggiati sul bancone, a volte tra i moduli prestampati, altre volte direttamente consegnati a chi è in attesa. Nessuna firma istituzionale, ma lo stile grafico sobrio e le parole scelte con cura lasciano intendere qualcosa di più: che si tratti di un’informazione neutra, condivisa, quasi ufficiale. Solo che non lo è.

La lettera di un dipendente di Poste italiane
La denuncia è arrivata in forma anonima, ma con toni misurati e precisi. È la voce di un dipendente di Poste Italiane, che sceglie di non firmarsi per timore di ritorsioni. Non è il primo, non sarà l’ultimo: chi lavora in ambienti pubblici conosce bene quanto sia sottile il confine tra libertà di parola e esposizione personale.
Secondo quanto racconta, e secondo quanto confermato da altre segnalazioni simili in diversi territori, i volantini promossi dalla CGIL sono presenti in numerose filiali postali italiane. I contenuti? Una mescolanza tra dati drammatici (incidenti sul lavoro, chiusure di uffici postali, mancanza di cittadinanza per milioni di persone) e slogan che incrociano dignità, sicurezza e diritti.
Il problema, però, non è l’intenzione in sé. È l’ambiguità del messaggio. Il riferimento diretto alla crisi degli uffici postali – che non è parte dei referendum – lascia intendere che questi strumenti servano a salvare i posti di lavoro dentro Poste. Ed è qui che qualcosa si rompe, o meglio, si piega. La connessione tra quesiti e condizioni aziendali è solo suggerita, mai esplicitata. Ma il danno comunicativo è fatto: chi legge non distingue più tra propaganda e informazione.

Cosa dicono davvero i cinque referendum?
Per capire dove nasce l’equivoco, serve entrare nel merito. I quattro quesiti proposti dalla CGIL (il quinto, sulla riduzione da 10 a 5 anni del tempo per richiedere la cittadinanza è proposto da + Europa), toccano temi reali e importanti, ma nessuno di essi riguarda specificamente Poste Italiane:
Ripristino del reintegro per i licenziamenti illegittimi (post Jobs Act)
Abolizione del tetto agli indennizzi per i licenziamenti nelle piccole imprese
Reintroduzione delle causali obbligatorie nei contratti a termine
Estensione della responsabilità solidale negli appalti per la sicurezza sul lavoro
Sono temi che parlano di giustizia sociale, di tutele, di diritti. Ma nessuno di questi interviene sulla privatizzazione del servizio postale, sulla chiusura degli sportelli o sulla riduzione del personale. Accostarli a immagini di uffici serrati o file interminabili è, nel migliore dei casi, una forzatura. Nel peggiore, una mistificazione.
Il diritto di sapere tutto
Ciò che preoccupa non è tanto il contenuto dei volantini, ma la cornice in cui vengono proposti. Quando un cliente entra in un ufficio postale e si trova davanti un messaggio apparentemente autorevole, è portato a fidarsi. Il contesto suggerisce che quell’informazione sia stata vagliata, bilanciata, magari condivisa con l’azienda o con altri soggetti. Non è così.
Non esiste un contraddittorio. Non ci sono materiali alternativi. Nessuno ha il compito – né la libertà, in molti casi – di proporre una lettura diversa o anche solo complementare. Eppure si tratta di uno spazio pubblico, di un servizio che dovrebbe garantire neutralità e pluralismo. Il rischio, come ha scritto quel dipendente, è che la comunicazione sindacale diventi un canale unidirezionale, senza opposizione, dove chi dissente si auto-censura per non finire isolato.
Quando i sindacati entrano nelle aziende
Dietro l’episodio dei volantini CGIL c’è una questione più grande: la difficoltà, sempre più evidente, nel tenere distinti i ruoli tra rappresentanza sindacale, informazione e azione politica. Quando i sindacati entrano nelle aziende – come è giusto che sia – dovrebbero portare contenuti, stimoli, rivendicazioni. Ma anche un senso di misura. Invece, quando la rappresentanza diventa mobilitazione permanente, il rischio è che la narrazione si appiattisca, e che ogni occasione diventi buona per “fare campagna”, anche laddove i collegamenti sono labili.
Non si tratta di negare lo spazio sindacale, né di difendere uno status quo che molti dipendenti vivono come frustrante. Si tratta di capire se certi metodi servano davvero a informare, oppure se finiscono solo per inasprire il clima e per rafforzare la percezione – già diffusa – che tutto sia strumentale.
Il bisogno di spazi sicuri per il confronto
Il punto vero, alla fine, è che manca uno spazio neutro dove discutere. Dove un lavoratore possa chiedere spiegazioni senza temere etichette. Dove chi ha un punto di vista critico non debba ricorrere all’anonimato. Dove i messaggi, anche quando sono di parte – come è legittimo – vengano presentati come tali, senza confondere piani, senza mescolare narrazione aziendale e campagna elettorale.
Se il voto è un diritto, lo è anche il diritto a non essere influenzati da chi occupa abusivamente lo spazio pubblico per far passare un messaggio che, per quanto fondato su questioni sociali, non corrisponde alla realtà di chi lavora in quel contesto. Serve un’attenzione diversa, un equilibrio che oggi appare compromesso.