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Roma, nuova stagione di mostre 2015 alla Galleria Giacomo Guidi

Per Barclay, Jan Van Der Ploeg, Found Photos in Detroit, Alchemy Room

PER BARCLAY. Fino al 24 aprile 2015, presenta la prima personale in galleria dell’artista norvegese Per Barclay (Oslo, 1955), “Nero Notte”, in collaborazione con Giorgio Persano, Torino. La sala principale dello spazio di largo Cristina di Svezia accoglie alcune stampe fotografiche in grande formato e un’imponente installazione ambientale, concepita appositamente per questa mostra.

Tra i maggiori esponenti della scena artistica europea, Barclay ha sviluppato, a partire dagli anni Ottanta, una ricerca che si distingue per coerenza e intensità, declinata attraverso il linguaggio fotografico, scultoreo e installativo

Famose le sue “Archisculture”, strutture appunto al confine tra architettura e scultura, prodotte in vetro o acciaio e che vedono spesso la presenza di liquidi come acqua e olio .

Questi materiali, di segno diametralmente opposto tra loro, ricoprono un ruolo quasi pittorico nel contesto dell’opera, introducendo una cifra di volta in volta dinamica, quando animati da dispositivi che introducono flussi e circuiti, o al contrario statica, come in “Nero Notte” in cui colmano grandi superfici e ambienti nella loro totalità.

Sia che si confronti con la dimensione ambientale, che con quella scultorea o fotografica, in cui i soggetti sono sempre ritratti in situazioni orchestrate con estrema precisione, il lavoro di Barclay è caratterizzato dalla continua ricerca di una tensione tra stati opposti della forma e della materia.

L’artista scrive: “Quello che cerco di esprimere nella mia pratica è l’idea di estrema violenza che c’è nella società contemporanea. […] Il mio lavoro vuole rappresentare la tensione quotidiana, quella specie di ansia che ognuno di noi può percepire nel contrasto tra bellezza e confort, tra le ‘grandi possibilità’ proprie del nostro tempo e l’estrema precarietà propria del nostro tempo”. Così scrive l’artista, dimostrando una tendenza mitteleuropea che si rifà, per alcuni versi, alla scuola dell’Azionismo Viennese, ma che può essere ricondotta più direttamente a una costante ricerca dell’espressione emotiva, in risposta all’oppressione che domina tutti i settori della vita umana.

Per Barclay ha studiato Storia dell’Arte presso l’Università di Bergen. Nel 1979 il suo desiderio di scoprire nuovi riferimenti artistici lo ha portato in Italia dove ha concluso i suoi studi e ha potuto conoscere il patrimonio artistico italiano, imprimendo un segno riconoscibile nel suo lavoro.

JAN VAN DER PLOEG. Sempre fino a venerdì 24 aprile, con un nuovo intervento site-specific, ideato e prodotto appositamente per uno dei corridoi della nuova sede di largo Cristina di Svezia si apre la fase successiva del progetto di Jan van der Ploeg, nell’ambito della prima personale a Roma dell’artista olandese, inaugurata in galleria a novembre 2014, che presentava un wallpainting inedito e una selezione di opere recenti su tela. Mentre il primo lavoro a parete si è sviluppato attorno al tema del Grip, una sorta di ‘forma ready-made’ mutuata dalla sagoma delle prese per le mani delle scatole di cartone, che Van der Ploeg ha iniziato a elaborare dal 1997, il nuovo intervento murale gioca in maniera diretta con lo spazio della galleria.

Una serie di grandi triangoli colorati scandiscono i flussi e i ritmi interni del corridoio, presentandosi come contrappunto formale e cromatico alle dinamiche che lo animano. Anche in questo nuovo wallpainting, per l’artista rimane essenziale che l’opera attinga a geometrie quotidiane e facilmente riconoscibili, in grado di essere trasposte in un contesto pittorico senza dover apportare alcun cambiamento. Le forme sono assunte come puro punto di partenza, moduli che Van der Ploeg rielabora a livello ambientale secondo le condizioni architettoniche che incontra, così come nei panel paintings, opere di formato più intimo e ridotto.

I primi wall painting dell’artista appaiono alla fine degli anni Novanta sui muri di Amsterdam: concepiti come figure, volti o segni di punteggiatura schematizzati, ricoprono funzioni simili a quelle dei ‘tags’ creando così un inevitabile rimando e svelando un’attitudine verso la street e urban art che si ibrida però con la sua ricerca.

FOUND PHOTOS IN DETROIT. Il progetto Found Photos in Detroit,in allestimento fino a sabato 7 marzo, di Arianna Arcara e Luca Santese, a cura di Stefano Riba, testimonia il rinnovato interesse della galleria verso le diverse manifestazioni della fotografia contemporanea.

Allestito in uno dei corridoi della galleria e per la prima volta a Roma, Found Photos in Detroit nasce dalla volontà di realizzare un reportage su Detroit, al fine di documentare lo stato di decadenza in cui versa la città in seguito alla crisi socio-economica che l’ha colpita dalla metà degli anni Settanta.

In seguito al ritrovamento di numerose fotografie, Polaroid e documenti abbandonati, rinvenuti nei pressi di edifici pubblici, come stazioni di polizia, scuole e ospedali, Arcara e Santese hanno rielaborato l’idea iniziale, lavorando alla formazione di un ampio archivio di materiali trovati.

Questo nucleo, pur essendo stato raccolto senza un preciso ordine, ha rivelato un forte potenziale documentario, sostenuto dall’originalità dei materiali stessi. L’intento documentaristico si è così trasformato in una meticolosa operazione di ricostruzione che, sulla base di testimonianze autentiche, è riuscita nel tentativo di restituire un’immagine di Detroit da un punto di vista interno, intimo e dunque non mediato.

Oltre duecentocinquanta documenti, raccolti in cornici e bacheche che organizzano per tema, per analogie e affinità, una selezione dal totale di oltre mille immagini. Fotografie familiari, fascicoli, documenti, materiali provenienti dalle scene dei numerosi crimini che si sono succeduti in città negli ultimi anni, contribuiscono a formare un ritratto originale della storia di Detroit, che non sarebbe stato possibile ottenere per mezzo di un mero documentario ex post. Il materiale in mostra, esposto nelle esatte condizioni in cui è stato ritrovato, conserva la sua natura di reperto originale, di autentica prova delle vicende che hanno avuto luogo in città.

OBIECTA. Obiecta è una collettiva che presenta una riflessione sullo sguardo dell’artista attraverso il linguaggio fotografico, in un percorso che abbraccia diverse generazioni. A cura di Angela Madesani, raccoglie opere di Massimiliano Gatti, Leonardo Genovese, Bohnchang Koo, Ingar Krauss, Laura Letinsky, Marco Palmieri, Sergio Scabar e Franco Vimercati, fino al 24 aprile 2015.

La mostra propone un’indagine su un tema specifico, che viene condotta attraverso i lavori di alcuni artisti di provenienze differenti, in cui si rintraccia un fil rouge e l’atteggiamento con il quale ciascuno di essi guarda dentro di sé attraverso l’apparente semplicità del proprio circostante.

La ricerca di Franco Vimercati (Milano, 1940 – 2001), che si traduce in un tentativo di spoliazione mirata al raggiungimento dell’essenza delle cose. I lavori di Sergio Scabar (Ronchi dei Legionari, Gorizia, 1946), sono tutti pezzi unici di cui la cornice è parte integrante; la stampa alchemica, in bianco e nero, manifesta la volontà di giungere alla natura dei fenomeni, nell’accezione filosofica del termine. Ognuno dei lavori esposti di Leonardo Genovese è dedicato a un diverso giorno dell’anno. Si tratta di oggetti abbandonati, ai quali l’artista da nuova vita, in una sospensione che non è solo spaziale, ma anche temporale. Le opere in mostra di Ingar Krauss (Berlino, 1965) sono quelle più vicine al filone della natura morta. Realizzate in bianco e nero, vengono poi colorate con una vernice a olio trasparente, rendendo evidente la volontà di sistemare la natura attraverso l’arte, in cui è un richiamo alla vanitas dell’esistenza. Il tempo, nel suo scorrere inesorabile, è invece nucleo portante della ricerca di Bohnchang Koo (Seul, Corea del Sud, 1953); oggetti immersi in un’atmosfera zen in aperto contrasto con i nostri ritmi inesorabili, ai quali Koo da una valenza diversa, sottolineata dai tagli che segnano il passare del tempo, la consunzione. Gli oggetti fotografati da Massimiliano Gatti (Pavia, 1981) sono reperti rinvenuti nel corso di una ricognizione nell’Iran del Nord, indistintamente provenienti dall’antica Ninive o dalla guerra di dieci anni fa. L’appiattimento storico che ci si mostra in superficie è un errore a livello scientifico e storiografico, ma presenta sul piano artistico un innegabile fascino; si tratta di tracce della storia, come la fotografia è, linguisticamente, traccia, indice. Quelle di Laura Letinksy (Winnipeg, Canada, 1962) sono moderni memento mori di un’epoca di consumismo ideologico e fisico. Il tempo è sospeso e la luce inquadra i resti di cibo, le memorie di cene e i piatti sporchi in una dimensione teatrale e sospesa. Al contrario, nessun riferimento al reale si trova nei set di Marco Palmieri (Napoli, 1969), da lui dipinti per ospitare piccole sedie stilizzate. Questi piccoli oggetti diventano un pretesto, un’unità di misura attraverso cui indagare un ipotetico circostante.

Per dare un seguito alla collaborazione avviata nell’ambito di BOA | Bunker of Arts, Giacomo Guidi ha presentato infine Alchemy Room, un nuovo spazio espositivo ospitato in una delle sale all’interno della galleria. Alchemy realizzerà un allestimento di opere a parete e installazioni inedite, realizzate da Dionea, a cura di Giacomo Guidi.

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