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No: non andrà tutto bene. E si profila uno scontro epocale tra finanza e imprese

Per alcuni decenni il mondo produttivo e quello della speculazione hanno marciato nella stessa direzione. Una complicità che sta diventando insostenibile

A muso duro, certo: se e quando finirà l’emergenza da Covid-19 non andrà tutto bene. Perché si stanno infliggendo al “sistema Paese” delle ferite troppo gravi e troppo profonde, per uscirne solo malconci. E perché, dietro i contrasti della cronaca, si annidano delle incompatibilità di ben altro spessore. Una sorta di conflitto, epocale, interno al capitalismo.

Fermatevi alla superficie e vedrete solo le baruffe di giornata. Tra il Governo che si erge a guardiano della salute collettiva e chi è impaziente di riaprire le attività economiche. Con al seguito i rispettivi sostenitori o detrattori. Spesso, purtroppo, le rispettive tifoserie.

Questo, però, è appunto ciò che balza all’occhio. E che rischia di abbagliare. Più che essere evidente, è apparente. Non esaurisce affatto il problema. Non chiarisce affatto le implicazioni.

La chiave di volta, infatti, non è la contrapposizione odierna tra i virologi alla Burioni e chi denuncia le terribili conseguenze imprenditoriali e lavorative del “Tutti a casa”. La vera alternativa non è tra salvare le vite delle possibili vittime del Covid-19 ed evitare che il tessuto economico si laceri in maniera travolgente e pressoché irreparabile.

No. Il dissidio autentico, che non comincia certo oggi ma che è sostanzialmente rimosso dal dibattito politico e mediatico, è quello tra economia finanziaria ed economia produttiva.

Soldi facili, ma poi finiscono

Nell’approccio liberista hanno entrambe lo stesso vizio d’origine: la ricerca (la smania) del massimo profitto. Ma c’è una diversità importantissima. L’economia finanziaria non ha mai perso la sua natura speculativa. Né si è mai sognata di metterla in discussione. Al contrario: l’ha estremizzata dotandosi di ogni sorta di artifici. Dalle operazioni allo scoperto ai derivati. Dal trading on line agli algoritmi dell’High Frequency Trading. E di sicuro non hanno ancora finito.

L’economia produttiva, invece, ha attraversato diversi fasi. All’inizio era partita malissimo, con il dispotismo padronale e i lavoratori-schiavi. Poi però, sotto la spinta delle lotte politiche di ispirazione socialista, era scesa a più miti consigli. A poco a poco, per amore o per forza, aveva trovato un discreto punto di equilibrio tra il desiderio di arricchimento degli imprenditori e i diritti sindacali.

D’altronde, a differenza degli speculatori in stile “lupi di Wall Street”, i produttori hanno due esigenze ineliminabili. Da un lato, la necessità di dipendenti capaci e motivati. Dall’altro, il bisogno di vendere le loro merci e di farlo, almeno in parte, sul mercato interno delle nazioni in cui hanno sede gli stabilimenti. Se sottopaghi le maestranze, le privi dei quattrini per comprare le merci. Per la singola azienda può non essere un problema perché ci si vota alle esportazioni e amen. Per il sistema nel suo insieme lo è sicuramente, o prima o dopo. Vedi ciò che è accaduto, anche in Italia, a causa delle poderose, e insane, asimmetrie della globalizzazione.  

Negli ultimi decenni, tuttavia, c’è stata una regressione. Culturale e politica. Cavalcata dagli imprenditori e favorita dai legislatori.

La precarizzazione dei contratti. I manager alla Marchionne. La delocalizzazioni degli impianti. O addirittura il trasferimento all’estero delle società. La competizione globale come alibi per ogni sorta di diktat a danno dei lavoratori. Abusi a norma di legge, diciamo così.

Giuridicamente un ossimoro. Eticamente, la pura verità.  

No: non andrà tutto bene

Per alcuni decenni, insomma, l’economia finanziaria e quella produttiva hanno marciato nella stessa direzione. Con una convergenza che è apparsa strategica, ossia basata su un’effettiva omogeneità di metodi e di intenti, ma che in realtà era (è) soltanto tattica.

L’anello di congiunzione tra i due mondi sono state innanzitutto le banche, sul versante finanziario, e le grandi imprese, tanto più se multinazionali, su quello produttivo. La lusinga, ovvero lo zucchero nella pozione avvelenata, si è concentrata nei soldi facili. I crediti concessi con estrema facilità agli “amici degli amici”. Le quotazioni in Borsa per rastrellare capitali “di investimento”. Gli spacchettamenti delle aziende unitarie e la loro suddivisione in una molteplicità di soggetti. Magari con sede nei paradisi fiscali, che non si esauriscono certo in quelli proverbiali dei Caraibi (vero, Olanda? vero, Lussemburgo? vero, Svizzera?). E via di questo passo.

Ma c’era (c’è) un punto debole. Ed è che questo assetto finisce con il privilegiare solo i soggetti più grandi, a danno di tutti gli altri. Nell’ambito del mondo bancario la soluzione è l’assorbimento degli istituti più piccoli da parte dei giganti del settore. Ma in campo produttivo non è altrettanto facile. Anche perché così si crea maggiore disoccupazione e si contrae ancora di più il mercato interno.

Ed eccoci tornati al punto di partenza. L’oggettiva incompatibilità tra economia finanziaria ed economia produttiva. La prima è tendenzialmente apolide e può essere controllata da oligarchie ristrette. La seconda ha bisogno di radicamento sociale, nelle nazioni in cui opera, e di una molteplicità di operatori che interagiscono tra di loro.

Le premesse di uno scontro aperto ci sono tutte. E le scelte operate finora dal Governo Conte non fanno che renderlo più vicino. O quantomeno più probabile.

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