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LGBT e dintorni: e se stessimo esagerando con la “fluidità di genere”?

I giovanissimi sono quotidianamente bombardati da questo tema, ma hanno gli strumenti per gestirlo?

Uomo vestito da donna

Sono seduto a un caffè che si trova su una grande spiaggia situata tra Casablanca e Rabat, in Marocco. Guardo l’oceano Atlantico. A pochi chilometri dal mio tavolino, in mare aperto, nel 1987 naufragò e morì il dottor Burou. A molti questo nome non evocherà granché. Basterà tuttavia citare il nome di Amanda Lear e il collegamento sarà presto fatto.

Il dottor Burou, che esercitò la professione di medico chirurgo a Casablanca dai primi anni cinquanta fino alla propria dipartita, fu, secondo la leggenda, colui che fece della nota soubrette e cantante il ( forse ) transessuale più famoso degli anni settanta/ottanta. Che le cose siano andate così, oppure no, ha poca importanza. All’epoca i transessuali famosi (oggi transgender) erano talmente rari da poter essere contati sulle dita di una mano.

LGBT a tutti i costi

Oggi non c’è film, evento, pubblicità o trasmissione televisiva che non ospiti un personaggio LGBT (acronimo di Lesbica, Gay, Bisessuale e Transgender).

Non si parla di altro. I giovanissimi, che hanno ormai accesso illimitato al web e alla tv, sono quotidianamente bombardati da temi come questo che alla loro tenera età, nella migliore delle ipotesi, potrebbero significare ben poco e creare forse confusione vista la complessità dell’argomento.

Il fenomeno LGBT sembra più una moda che un’espressione di una parte (minoritaria) della società.

Fluidità di genere tra anatomia, biologia e psicologia

Quanto e quando la differenza di sesso (anatomica) o di genere (psicologica) è una condizione personale reale, percepita o piuttosto una forma di costume?

Nel 1945 lo Stato Maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti decise di sganciare su Hiroshima e Nagasaki le atomiche. Le due pacifiche cittadine Nipponiche furono scelte tra altre ipotizzate solo per ragioni meteorologiche, perché all’ultimo momento erano le uniche sulle quali splendesse il sole.

Il Giappone si arrese e la seconda guerra mondiale terminò.

Fino a quegli anni negli Stati Uniti esistevano due tipologie di cittadini: gli adulti e giovani. I giovani altri non erano che dei futuri adulti. Sarebbero divenuti, terminati gli studi, Mr. e Mrs. Smith, lavoratori e casalinghe. Ma quando i giovanissimi militari statunitensi tornarono in patria a guerra terminata non si sentivano più dei giovani invisibili.

Molti di loro erano appena maggiorenni ed erano partiti talmente rapidamente al fronte che la natura non aveva avuto neppure il tempo di far spuntare loro i peli tra le labbra e il naso. Sul fronte europeo e su quello del Pacifico avevano lasciato amici, commilitoni, braccia, gambe ma soprattutto l’innocenza della gioventù. Erano tornati in patria prematuramente uomini. Avevano visto orrori indicibili. Così in qualche modo alzarono il dito e dissero : “ Ci siamo anche noi! non siamo soltanto dei prototipi di adulti “. L’unica cosa che volevano, come disse Rambo nel sequel dell’omonimo film , era :” che il nostro paese ci ami quanto noi lo amiamo” e che li riconoscesse.

Questo processo di presa di coscienza di un ruolo nella società avvenne soprattutto attraverso la musica e la moda come straordinariamente descritto nel film “ Il ribelle” con James Dean , o rappresentato da Fonzie in Happy Days ma ancora di più, in modo potente e trasversale, da un ragazzo che cambiò la storia della musica: Elvis Presley il quale , con il rock and roll , figlio del blues dei neri e del country dei bianchi, offrì a milioni di giovani americani, tornati dal fronte e non, l’opportunità di avere finalmente un’identità, di non essere semplicemente degli invisibili futuri signore e signora Smith.

Ogni epoca ha visto questo tipo di fenomeno sociale. La necessità di riconoscersi in qualcosa, di far parte di qualcosa. Di essere un colore fra tanti colori diversi.

Quando ero ragazzo , verso la fine degli anni 70 egli anni 80, se camminavi per il centro di Roma e ti fermavi a Piazza Di Spagna, sulla grande scalinata che dalla fontana “Barcaccia” porta su a Trinità dei Monti, potevi distintamente notare il gruppo di metallari con i capelli lunghi e con borchie ai polsi ,che indossavano giubbini jeans sul cui retro erano cucite delle grandissime toppe in tessuto su cui campeggiava l’ immagine di copertine dei dischi degli Iron Maiden o degli Scorpions. C’erano i punk con le tipiche creste di capelli colorati tenuti su da lacche potentissime o da dentifricio Impastato e indurito. Poi c’erano i paninari che rappresentavano la Roma bene e ricca, che venivano quasi tutti dal quartiere Parioli, e che si riconoscevano perché calzavano scarpe Timberland o Clark (assolutamente originali! Non quelle taroccate vendute al mercato di Val Melaina),indossavano jeans Levi’s 501 “calati” sul sedere, cinta del Charro e piumino della Moncler.

Eravamo una sorta di gang metropolitane, assolutamente pacifiche. Avevamo i colori delle gang ma non eravamo violenti come quelle descritte nel film “I guerrieri della notte” di Walter Hill.

La necessità di identificarsi in un gruppo

In ogni generazione i giovani hanno avuto bisogno di identificarsi in un gruppo, di riconoscersi in alcuni colori, in alcune forme di abbigliamento, in generi musicali, fedi politiche, religiose o calcistiche.

Nella comitiva che frequentavo da ragazzo a Monte Sacro, c’erano i ragazzi dell’oratorio, quelli che frequentavano i locali in cui si parlava di politica, quelli che fumavano e quelli che non avevano mai messo fra le labbra una sigaretta, entrambi fieri delle proprie scelte. Poi c’erano gli appassionati di calcio che andavano allo stadio la domenica o che, quando la squadra del cuore giocava in trasferta, si riunivano su una panchina, quasi fosse l’altare di una chiesa, ascoltando alla radiolina “ Tutto il calcio, minuto per minuto “. Infine c’ero io, che ero rimasto affascinato dal mio amico “ Sacchio”, appassionato di heavy metal che mi fece scoprire il mondo del “metallo pesante “. Così mi lasciai crescere i capelli e mi vestii come i metallari di Piazza di Spagna.

Ognuno di noi rappresentava qualcosa e qualcuno, eravamo ben distinti e avevamo il nostro ruolo e il nostro posto nella società. Tutti assolutamente identificabili e riconducibili a un modo di pensare e di essere. Era la bellezza delle differenze.

Da alcuni anni a questa parte la politica ha perso fascino e credibilità, la religione ha smarrito il proprio carisma, la globalizzazione ad ogni costo, internet senza filtri e senza controlli e i movimenti a favore dei diritti delle minoranze , sicuramente nati con nobili intenti, ci hanno portati al paradosso della cancel culture. Tutto ha finito per generare un appiattimento totale in cui, paradossalmente, le diversità diventano talmente troppo presenti da annullarsi e da perdere originalità. Sembriamo tutti gli abitanti delle città virtuali di Matrix ed è diventato difficilissimo incontrare la ragazza bionda vestita di rosso (solo per appassionati del film…).

Credo che oggi molti giovani si sentano privi di identità, non riescano a collocarsi in maniera chiara nella società. L’appiattimento sociale da un lato e l’autodistruzione della nostra storia e cultura a favore di altre realtà spesso lontane dalla nostra, hanno in qualche maniera uniformato tutto e tutti.

Temo che molti ragazzi, spesso bambini, abbiano trovato un’opportunità di alzare il dito e dire “ci sono anch’io “ nel fenomeno LGBT (Lesbica, Gay, Bisessuale e Transgender )

Notizie di bambini che dichiarano di sentirsi femminucce o bambine che affermano di essere maschietti, al punto da chiedere di essere chiamati con un nome di genere diverso dal proprio e di essere sottoposti, col consenso dei propri genitori, a terapie mediche ormonali per poter cambiare sesso, sono all’ordine del giorno.

Non staremo correndo troppo?

Siamo davvero certi che siano tutti fenomeni naturali da attribuire ad un reale senso di inadeguatezza sessuale? Non sarà che forse stiamo facendo bruciare le tappe educative ai nostri figli pretendendo che comprendano troppo presto concetti già difficili per noi adulti?

Quando avevo undici anni, nel 1981, frequentavo la scuola media statale italiana di Casablanca.

A parte il fatto che mia madre avesse, qui in Marocco, come ginecologo un assistente del Dottor Burou, il che provocava battutine e risatine fra i miei amici a Roma i quali alludevano a una mia trasformazione sessuale, al massimo, in tema di transessualità, io avevo ascoltato la canzone “Pierre” dei Pooh o “ Avventura con un travestito” di Califano.

Brani che compresi profondamente solo molti anni dopo.

Se all’epoca i miei compagni di classe ed io, dopo il consueto: “ Buongiorno ragazzi e ragazze” all’inizio delle lezioni, ci fossimo ribellati pretendendo di essere chiamati con nomi di genere diversi dai nostri e Claudio avesse preteso di essere chiamato col nome Stefania o Silvia con quello di Antonio, la nostra insegnante avrebbe immediatamente convocato il preside il quale, nella migliore delle ipotesi, ci avrebbe invitato a inginocchiarci sui ceci.

Certo, metodi che a molti oggi sembreranno estremi e brutali, ma non meno estremi e brutali dell’accettare che una classe di alunne di 11 anni, nel Regno Unito, si ribelli alla propria insegnante colpevole di averle chiamate bambine ( pare abbiano dichiarato di sentirsi sessualmente diverse )e per questo sospesa e licenziata. E’ accaduto realmente qualche settimana fa.

Fluidità di genere, un condizionamento sui nostri giovani

Davvero qualcuno crede che ci sia un’esplosione improvvisa di “dubbia identità sessuale “ tra i giovanissimi? O magari li stiamo confondendo ed offrendo loro su di un piatto d’argento un’opportunità, tutt’altro che sana e spontanea, di distinguersi nella società?

Forse dovremmo seguire un po’ di più i nostri figli. Parlare con loro. E magari anche parlare fra di noi adulti.

Il web e la televisione stanno sostituendo scuola, genitori, persino Dio.

La scuola e la famiglia dovrebbero interrogarsi sulle proprie responsabilità e rispettivi ruoli.

Dovremmo forse invitare i nostri figli a spegnere i telefonini e scendere con loro in strada a giocare a pallone, a campana, all’elastico o a uno monta la luna e ai Quattro Cantoni. Magari semplicemente leggere con loro le avventure di Tom Sawyer o Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry o perché no un innocuo Topolino.

Spiegare loro cose semplici, alla loro portata e proporzionate alla loro età.

Prima del politicamente corretto…

C’è una scena nel film di Nanni Loy “ Testa o croce” del 1982, quando ancora si poteva scherzare su tutto e su tutti e tutti ne ridevano, in cui Nino Manfredi, nel ruolo de “il Beduino “, è in pausa pranzo sul ciglio di un’autostrada con i propri colleghi asfaltisti ai quali spiega, a modo suo, ciò che secondo lui il proprio medico gli avrebbe rivelato e che lui, ovviamente, ha totalmente travisato.

Ossia che chi geme durante l’atto sessuale è un “ermafrocito con gemito” (“ ermafrodita congenito”, ovviamente ).

Il Beduino afferma, con tono rassegnato : ” Me l’ha detto er dottore. Semo tutti froci… è una questione de icse o de ipslon, basta una icse de meno…”.

E tutti se ne convincono e se ne fanno una ragione.