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Le ferite dolorose della memoria: il nazismo secondo Karl Kraus

Per quanto riguarda la letteratura in lingua tedesca, un grosso caso è quello di Karl Kraus. Era convinto della natura totalitaria del nazismo

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Karl Kraus

Il 27 gennaio di ogni anno si celebra il giorno della memoria per le vittime della Shoah. In questo giorno, nel 1945, le truppe sovietiche dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento e sterminio di Auschwitz, giustamente assurto a simbolo del Male contemporaneo. Ciò che normalmente non si dice, è che queste commemorazioni celebrative hanno il loro senso, nel far sì che di un evento come la Shoah ci si ricordi tutto l’anno. Un po’ come il senso del Natale sta nel far sì che della virtù della bontà, non ci si ricordi solo il 25 dicembre. Non si tratta proprio di banalità, come potrebbe apparire a prima vista.  

Il nichilismo e il suo clinico

La letteratura europea che ha analizzato quel fenomeno capitale del mondo contemporaneo che è la Shoah, è rigogliosa, a partire dal nostro grande Primo Levi. Per quanto riguarda la letteratura in lingua tedesca, un grosso caso è rappresentato da Karl Kraus. Il grande polemista dell’epoca della Vienna absburgica, condusse per più di trent’anni una rivista, “Die Fackel” – “La Fiaccola” in italiano – da cui nascevano tutti i suoi scritti.

Non solo i saggi, gli aforismi e le poesie, ma anche le sue due grandi opere sono nate in quel contesto. Ossia, “Gli ultimi giorni dell’umanità” (1922, ed. it. Adelphi) dedicata alla Prima guerra mondiale e “La terza notte di Valpurga” (1933, ed. it. Editori Riuniti), dedicata al nazismo.

“La terza notte di Valpurga” fu scritta di getto da Kraus nell’anno in cui Hitler prese il potere, il 1933, ma rimase inedita fino al 1952. Kraus aveva la sensazione, molto netta, che, rispetto al mondo monarchico e liberale di quella Vienna che lui detestava, il Potere avesse fatto un salto di qualità. Che la pubblicazione di quell’opera gli sarebbe costata la vita. A partire dal celebre incipit: “Su Hitler non mi viene in mente niente”. La frase ha, naturalmente, significato profondo: Hitler e il nazismo hanno la capacità di paralizzare il pensiero e il linguaggio, perché sono il culmine raggiunto dal nichilismo europeo.

Compagni di strada

La convinzione di Kraus, dunque, era che il nazismo avesse compiuto il primo dei suoi giganteschi attentati proprio contro la lingua tedesca. La lingua di Goethe e di Hölderlin, di Kant e di Heine. Per ragioni non molto dissimili, qualche anno dopo Thomas Mann aveva rivolto ai nazisti la famosa frase: “dove sono io, lì è la Germania”. Nel 1944, fu Benedetto Croce, il filosofo che aveva introdotto l’Italia nei pensieri reconditi di Hegel e dell’idealismo tedesco, a scendere in difesa della lingua di Goethe.

Eppure, chi è cresciuto in una famiglia di origini ebraiche del secondo dopoguerra – in cui era difficile, a tavola, anche solo pronunciare la parola ‘Germania’ – può comprendere a fondo le ragioni di Kraus. Non solo nelle parti recitate delle opere di Wagner, ma anche in quelle del “Flauto magico” di Mozart, è possibile avere l’impressione di sentire i dialoghi o le battute delle SS o della Gestapo, soprattutto per chi non capisce il tedesco all’impronta.

A tal punto è arrivata la Germania di allora. Quella Germania sulla quale, Brecht – si tratta della citazione iniziale di “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (1963, ed. it. Feltrinelli) di Hannah Arendt – scrisse i micidiali versi: “O Germania – udendo i discorsi che risuonano dalla tua casa si ride. / Ma chiunque ti vede dà di piglio al coltello”.

Dal silenzio alla poesia

Kraus si rese conto di tutto ciò molto rapidamente e in principio scelse il silenzio. Lo stesso atteggiamento che aveva avuto di fronte alla Prima guerra mondiale, prima di accingersi alla composizione degli “Ultimi giorni dell’umanità”. Tra l’altro una delle peculiarità del suo sguardo visionario, è che “La terza notte di Valpurga” è stata composta nel 1933, ossia nel primo anno in cui il nazismo fu al potere, ossia ben prima di Auschwitz e che la macchina vera e propria dello sterminio si mettesse a funzionare a pieno regime.

Tuttavia ciò non impedì a Kraus, che era un formidabile analista del presente, di rendersi conto, fino in fondo, della natura totalitaria del sistema nazista. Lo ha notato, fra gli altri, Jonathan Franzen nel suo “Il progetto Kraus” (Einaudi), ma è possibile comprenderlo anche leggendo semplicemente l’opera.

A puntellare il suo silenzio, egli scrisse una delle grandi poesie in lingua tedesca del secolo scorso. Essa dice: “Non si chieda cosa ho fatto in tutto questo tempo. / Resterei muto; / e non direi perché. / E c’è un silenzio da far esplodere la terra. / Neanche una parola che abbia colpito; / si parla solamente nel sonno. / E si sogna di un sole che rideva. / Svanisce; / il dopo non ha più importanza. / La parola si è spenta, quando quel tempo si è svegliato”.

Ammirata da Brecht e da Walter Benjamin, questa poesia rende testimonianza della straordinaria capacità della parola di Kraus di penetrare nella sostanza profonda del nostro tempo, di renderne conto, avviandoci sulla difficile strada della consapevolezza.

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