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La terrazza sentimento di Genovese e la società del “Se l’è cercata”

Sulla Terrazza sentimento: “Io organizzo la festa, tu sai di che festa si tratta e quindi non puoi dopo lamentarti di ciò che ti accade”

Terrazza Sentimento

Terrazza Sentimento

Quando un luogo acquisisce un valore ultradimensionale rispetto alla sua stessa natura finisce per divenire spazio assoluto all’interno del quale le leggi e le regole che governano l’uomo possono essere tranquillamente superate, e il confine tra lecito e illecito per chi lo vive, diventa difficile da definire. Questa è la dimensione che l’attico nel centro di Milano dell’imprenditore Alberto Genovese, ha assunto nel corso degli anni. Lo sanno bene i vicini, lo sanno bene tutti coloro che vi sono stati e lo sa bene lo stesso Genovese che da abile imprenditore di Start-up, ha costruito la sua fortuna catturando il mercato delle assicurazioni e delle polizze online, senza mai venderne una. Almeno inizialmente.

Sì perché lui non ha mai mercanteggiato su veri beni, ma tutto il suo successo imprenditoriale si è sempre basato più sul soddisfare l’effimero bisogno di cogliere l’occasione da parte dell’utente, offrendo il servizio di comparazione fra preventivi ed offerte. Diciamo che ha saputo giocare sulla necessità, tutta moderna di risparmiare, riuscendo a farlo velocemente e senza sforzo. Questa intuitiva forma di servizio ha reso Genovese uno dei personaggi più affermati nello scenario dell’imprenditoria online. E proprio come la creazione di una sua applicazione ha creato il luogo dei suoi party.

Un attico meraviglioso sui tetti di Milano

Un meraviglioso attico a meno di trecento metri dal Duomo di Milano, con divani sparsi fra meravigliose piante esotiche, una gigantesca vasca idromassaggio, un potente impianto per la musica e al piano di sopra la stanza dei giochi. Un accattivante e seducente luogo dove, in questo caso soddisfare i suoi di bisogni. E’ in questo parco giochi esclusivo che quasi tutte le settimane si ripetevano da anni i famosi party del quarantenne Genovese, originario di Napoli ma ormai milanese d’assunzione. Party fatti di casse di champagne e stuzzichini e tante, tante belle ragazze, finché ad uscire, o meglio a scappare da lì, è stata una giovane con vestiti non suoi e visibilmente sotto shock, soccorsa nel marciapiede sottostante la famosa “terrazza sentimento”.

Una ragazza diciottenne che invitata da altra conoscente, il giorno prima era riuscita ad entrare nell’esclusivo ambiente del party. Qualche drink, qualche chiacchiera in piedi fra gli interni dell’appartamento e il suggestivo affaccio. Poi una striscia di coca e infine la sensazione di sentirsi improvvisamente vulnerabili. Tutto si offusca, tutto diviene un misto di inconsapevolezza e di inadeguatezza. La voglia di essere da un’altra parte ma senza più la forza di poter decidere e di ribellarsi. E’ nel complicato vortice della chimica sintetica, probabilmente anfetamina, che la ragazza racconta di essersi ritrovata con mani e piedi legati.

I fatti secondo la ricostruzione della ragazza

Stando ai fatti raccontati, la ragazza stava per andare via quando è stata bloccata e portata nella stanza da letto di Genovese. Qui è stata poi legata e abusata sessualmente con i buttafuori dell’imprenditore fuori dalla porta a controllare che il capo non venisse disturbato. Violenza durata oltre 18 ore, fino a quando la ragazza non è riuscita a scappare. Ritrovata in strada seminuda, con una sola scarpa, piena di lividi e inevitabilmente sotto shock, viene soccorsa e portata d’urgenza in ospedale dove si accerta la violenza sessuale.

Parte la denuncia e scatta l’arresto dell’imprenditore, attualmente in custodia cautelare. Perché la violenza e il sequestro vengono confermati dalle registrazione delle videocamere presenti all’interno dell’appartamento.

Contemporaneamente all’arresto del magnate nostrano, parte anche il vergognoso ingranaggio del trita carne attuato da pseudo giornalisti e commentatori televisivi. Un meccanismo capace di trasformare il più abietto dei comportamenti, quello della violenza sessuale, come giustificabile e accettabile solo perché in uso ad un certo ambiente. Solo perché risaputo nel circuito e anche se non leggibile comunque deducibile. “Io organizzo la festa, tu sai di che festa si tratta e quindi tu non puoi dopo lamentarti di ciò che ti accade”.

La violenza non finisce, continua

E’ proprio grazie a questo ingranaggio che la violenza sulla 18 enne non finisce, ma anzi acquisisce nuova linfa e ridondanza. Perché alla profonda ferita interiore si vengono a sommare insulti del tipo “se l’è cercata”, o “se ne poteva stare a casa”. Paradossalmente si perde il focus centrale della violenza perpetrata e si dirotta tutto sulla colpevolizzazione della vittima finendo per giustificare chi ha commesso il gesto. Perché? Perché i frammenti di quella colpa sappiamo di averli dentro ognuno di noi e pesano come macigni, e per questo ci rimane più facile sminuire il sentito della vittima e il coraggio avuto nel denunciare la violenza subita che non condannare, senza ma e senza se, il carnefice.

Una società in cui l’abusante viene difeso e giustificato

Purtroppo facciamo parte di una società e di una cultura che invita spesso le donne a non esporsi troppo, al dover stare costantemente attente. E se non si attende a questi moniti si finisce con il doversi quasi assumere la colpa di quanto accaduto. Un senso di colpa interiorizzato del quale è molto difficile liberarsi, soprattutto dopo aver subito una aggressione. Un senso di colpa che quasi ci legittima a scaricare la nostra frustrazione sul singolo perché ci libera dal dover ammettere di vivere in una società in cui l’abusante viene difeso e giustificato mentre l’abusato, al contrario, si ritrova a non essere tutelato e a fare i conti con cliché decisamente troppo diffusi.

Abbandoniamo i “se l’è cercata”, i “cos’ha fatto affinché non accadesse”, i “chissà come si era vestita”, i “poteva dire di no e ribellarsi”. Proviamo invece con un “ti sono vicina”, con un “sono qui”. Proviamo a far sentire la vittima meno sola, meno sbagliata. Prendiamo consapevolezza del suo dolore senza fuggire nel paradosso di un effimero e codardo “sì però!”.
Perché chi fugge da questo dolore diviene inevitabilmente complice dell’aggressore.

Ha collaborato Valentina Brusco, Dottoressa in psicologia clinica e dinamica.

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