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La Roma abusiva

Abusivismo a Roma, un’analisi e una riflessione sul fenomeno

Ministero dell'Interno, Comune di Roma, Municipio, Vigili urbani: la patata bollente dei venditori abusivi se la passano in tanti (a rotazione), spinti da associazioni di categoria e commercianti, a cui il problema della vendita in strada di oggetti ed indumenti contraffatti non va proprio giù.

Secondo recenti stime, a Roma sarebbero tra i 15 ed i 18 mila; e tra di essi la categoria che proprio non va giù alla quasi totalità dei commercianti di alto livello è quella dei venditori di merce d'abbigliamento contraffatta, che immette sul mercato nero indumenti, occhiali ed oggettistica che ricopia le grandi marche. Il loro giro d'affari, secondo alcune stime, si aggirerebbe attorno a diverse centinaia di milioni di euro

Sarebbe interessante, a tal proposito, capire anche come tali stime numeriche, inerenti a questa miniera d'oro dei venditori abusivi (che per bontà di spirito francescana ripudiano poi tali guadagni e vivono in dieci in un appartamento), siano state calcolate. Il filo è sottile: si calcola al lordo, al netto, al mancato introito delle grandi marche o immaginando una rivalutazione della merce come se fosse originale, e dunque ad un passivo delle grandi marche e dei centri di distribuzione?

Già, perché entrando ancora più nello specifico, si può citare una ricerca che ci dice che il totale di mancati introiti fiscali (evasione, per semplificare) della vendita abusiva è pressappoco di 700 e passa milioni di euro (le cifre sono varie, abbiamo tirato noi una media discrezionale). Considerando una tassazione di poco inferiore al 50%, si può immaginare che il giro d'affari, così contestualizzato, stia attorno ad 1 miliardo e 400 milioni di euro. Una cifra che divisa per 15.000 venditori abusivi ci regala un quadro interessante: ognuno di essi, a quanto pare, andrebbe a percepire un reddito annuo di quasi 100.000 euro, praticamente come un dirigente pubblico di livello elevato.

Occhio però: in queste statistiche si sono contati anche i venditori ambulanti di "serie b", e cioè chi vende caldarroste, qualche cd musicale o bottigliette d'acqua. Dunque, al loro netto in termini sia di profitto quantificato (si dovrebbe togliere poco, giacché è difficile immaginare che il mercato delle caldarroste e dei cd abusivi a Roma superi i 100/200 milioni di euro, altrimenti la città sarebbe stata già da tempo sommersa dai castagneti e dalle case discografiche) che di numero effettivo di venditori (forse poco meno della metà), noi avremmo probabilmente una classe di ambulanti abusivi venditori di merce contraffatta di marca che con i rispettivi guadagni potrebbe tranquillamente andarsene a vivere ai Parioli e girare in Lamborghini, avendo ipoteticamente redditi superiori ai 200.000 euro.

Si potrebbe obiettare che chi vende merce contraffatta "di lusso" per strada fa in realtà parte di un racket, e che sia quindi l'ultima ruota del carro, il venditore che deve rendere conto all'organizzazione criminale che organizza tale commercio e che da questo commercio trae poco profitto. Il che è vero solo in parte. Per quanto sia innegabile l'esistenza di un florido e criminale mercato della contraffazione, dall'altro bisogna ricordare che è possibile ipotizzare che un gran numero di venditori ambulanti abusivi faccia riferimento solo a se stesso, dovendosi rivolgere a queste organizzazioni solo per l'acquisto della merce. La logica ci suggerisce tale ipotesi nel momento in cui ci rendiamo conto che i prezzi della loro merce sono largamente trattabili, e non hanno ovviamente resoconto scritto comprovabile da un immaginario caporale dell'abusivismo (come farebbe a sapere se il prezzo di vendita dichiarato a lui dal suo uomo corrisponde alla realtà, oppure se il venditore ci ha proverbialmente "fatto la cresta"?). Dunque, il guadagno ipotetico dell'abusivo, stando alle cifre poc'anzi elencate, rimane pressappoco immutato (al lordo della loro spesa per l'acquisto della merce, ovviamente).

Tali riflessioni ci inducono ad ipotizzare che tali osservazioni finanziarie sull'effettiva consistenza del mercato abusivo a Roma siano, forse, un pò esagerate, probabilmente operate anche sulla grande pressione di chi avverte la vendita di merce di lusso contraffatta come un danno enorme alla propria sfera economica. Ma è davvero così?

La vendita di prodotti di lusso (perché di lusso si tratta: un paio di scarpe di marca da 500 euro, che spesso sono l'equivalente allo stipendio di un precario, sono un bene di lusso), è realmente osteggiata, derubata e affossata dalla contraffazione e la vendita abusiva? Per rispondere a questa domanda occorre porsi un'altra domanda. Giulia, 27 anni, operatrice di un call-center a 700 euro al mese, riuscirebbe mai a permettersi – o avere la spregiudicatezza – di acquistare una borsa, un vestito o un paio di scarpe equivalenti al 70/80% del suo stipendio? Probabilmente no. E se allora Giulia, che a quella borsa fa la corte da mesi, decide di acquistarla da un abusivo al prezzo di 50 euro, fa un danno alla marca? Forse no: quella da 500 non se la sarebbe potuta permettere , quindi non l'avrebbe mai acquistata. O meglio, forse lo avrebbe fatto in una condizione sottosforzo, dopo aver risparmiato e risparmiato, dopo aver fatto ore e ore di straordinari.

Ma sarebbe stato giusto, da un punto di vista sociologico? "Costringere", psicologicamente, una persona non abbiente a centellinare ogni uscita al sabato sera solo per quella borsa, senza consentirgli di avere alternative valide, è un atto moralmente legittimo? Il libero mercato ci dice di si; la libera coscienza, forse, no. Ognuno è ovviamente libero di operare la scelta che vuole (e ci mancherebbe altro), ma certo il sistema consumistico "da stress" è una condizione intrinseca, invisibile, "corruttrice", difficilmente aggirabile, nonché imposta artificialmente da una campagna mediatica e di marketing (nel senso generale del termine) che pone l'individuo nell'obbligo sociale di riferirsi a marche e brand affermati ed accettati. Senza voler infatti scadere nella retorica della critica alla società moderna, è innegabile che la società consumistica di oggi sia il frutto di azioni studiate antropologicamente e sociologicamente, volte ad imporre psicologicamente una data condizione di accettazione sociale, senza la quale un individuo – specialmente se giovane – è spesso posto fuori da una condizione di "normalità".

Si crea quindi una realtà da accettare, che impone, ad esempio, un certo modo di vestirsi "socialmente accettabile", e poi si pone fuori dal raggio economico di molte persone, costringendole a guardare dalla finestra. O, in alternativa, a sgobbare come muli per poter ottenere quello standard, mettendosi in condizione di acquistare quel lusso.

L'abusivismo e la contraffazione di merce di lusso, per quanto indiscutibilmente da condannare e combattere, sono allora una condizione parallela a quella del marketing da accettazione sociale. Sono la conseguenza endemica e cronica (o, in parole più semplici, una scorciatoia) di una praticità del lusso spesso impossibile, che mette sotto sforzo la maggioranza della popolazione, la quale, "innocentemente", ha trovato in questa pratica una efficace valvola di sfogo.

Ma poi, per concludere, di che cosa dovrebbero avere paura le grandi marche? Le merci contraffatte, o quelle che imitano i grandi brand, spacciate a noi consumatori come prodotti di qualità superiore avente un alto costo di produzione, sono in realtà fabbricate in paesi del Terzo Mondo, spesso tramite l'utilizzo di manodopera sfruttata (spesso anche minorile) grazie ad una legislazione favorevole, e sono frequentemente fatte con materiali scadenti, di bassa qualità. Abbiamo allora fiducia nell'accorto cliente: esso noterà sicuramente la differenza tra i prodotti originali e quelli contraffatti, scegliendo, senza alcun dubbio, il rapporto qualità-prezzo migliore.

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