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La mite, Fëdor Dostoevskij‏

Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi

Cari lettori, da qui a Natale cercherò di consigliarvi qualche bel libro da regalare. Se utilizzerete delle piccole accortezze per la scelta, oltre a fare un gesto d’affetto, farete senz’altro un regalo sentito, apprezzato e ad personam. Suggerisco vivamente di non affidarvi molto a pubblicità o cartellonistica, un libro non si giudica dalla copertina; e tanto meno alla maggiore o minore riconoscibilità dell’autore: il marketing è un vero doping per l’industria editoriale. Provate a capire il genere preferito e orientatevi di conseguenza verso quei libri che personalmente vi danno l’idea di avere qualcosa che richiama in maniera speciale il destinatario del regalo… Dovrebbe funzionare!

Questo sabato vi propongo un racconto breve quanto intenso: La mite, scritto da Dostoevskij nel 1876 per il suo Diario di uno scrittore.

Dostoevskij si serve della memoria collettiva dei suoi lettori ed è come se “risorgesse l’uomo del sottosuolo” permaloso e superbo che sfoga sulla sua donna, vittima innocente, la sua precedente sofferenza e umiliazione.

In quel periodo Dostoevskij è in contatto con donne di ogni classe e convinzione ed è in stretto rapporto con il movimento femminista. E’ indiscutibilmente affascinato dalla rinascita della donna russa negli ultimi venti anni, e nota come negli stessi anni l’uomo russo si sia abbandonato alla corruzione, al materialismo e al cinismo. Per lui il valore più alto della natura femminile è la saggezza del cuore: ammira come la sete di un’istruzione superiore abbia rivelato la serietà e la perseveranza delle donne, diventate un esempio di coraggio.

E’ curioso però vedere come lo stesso scrittore nelle sue opere non rappresenti quelle donne nuove, forti e indipendenti ma prediliga la figura di donne miti e umili o tragicamente disperate.

Il racconto La mite è ispirato a un fatto di cronaca in particolare: il suicidio di una ragazza, archiviato dalle autorità giudiziarie come un caso di suicidio mite.

La voce narrante è quella di un usuraio meschino e grossolano, che racconta la sua dolorosa vicenda familiare. Egli nella giovinezza è stato umiliato e si nutre inconsciamente di vendetta nei confronti del mondo e soprattutto di sua moglie che chiama 'la mite': una giovane ragazza particolarmente buona, timida e delicata, con la quale dopo un iniziale momento di entusiasmo, vivrà un matrimonio pieno di silenzi carichi di orgoglio. La meschinità, l’avidità e l’aridità affettiva del marito costringono la donna a soffrire e a ribellarsi. Finché giunge per lei una grave malattia e lui comincia a temere per la sua vita. Appena guarita, lui si getta ai suoi piedi e le confessa il proprio amore, ma lei non riesce più ad amarlo. Ora egli crede che potrà obbligarla ad amarlo, non più con la severità iniziale, ma con generosità. La mite non vede altra soluzione che la morte, visto che l’amore ormai è morto da tempo.

“Si afferma che chi sta su una cima si sente involontariamente attratto dall’abisso”.

La mite si getta dalla finestra. Con la sua morte finisce anche la vita stessa dell’usuraio già qui in terra condannato all’inferno, che deve affrontare ora la sua solitudine:

“Tutto è morto e dappertutto c’è morte. Solo gli uomini vivono e intorno a loro regna il silenzio-questa è la terra! Uomini, amatevi l’un l’altro- chi l’ha detto? Di chi è questo comandamento? Il pendolo batte insensibile e odioso. Sono le due di notte. Le sue scarpine stanno vicino al letto come se l’aspettassero… No, seriamente, quando domani la porteranno via, che sarà di me?”

Come spesso accade Dostoevskij produce l’effetto contrario a quello che si propone. I suoi personaggi sembrano sempre in qualche modo imprigionati, eppure ti fanno amare la libertà. Sono spesso scettici e ti fanno credente. Compiono degli eccessi, cercano di superare quell’estremo limite del proprio io, mai per autodistruggersi veramente ma per conoscere l’uomo dentro se stessi. Sono crudeli e spietati fino in fondo, fin laggiù dove puoi intravedere anche la loro profondità e umanità. Spesso non sono se stessi con gli altri ma il modo in cui si tormentano svela la loro vera identità. L’amore è impossibilità di rivelare i propri sentimenti, eppure te ne accende in petto un desiderio inesausto. La sofferenza è per loro un piacere che difendono a denti stretti, l’amano con tutto il cuore tanto da confonderti con la felicità.

Un bellissimo messaggio di bontà, fraternità, speranza e amore dello scrittore, da incartare e mettere sotto l’albero di Natale: gli uomini che hanno sofferto devono avere rispetto della sofferenza altrui, essi sono già fratelli agli altri per compassione. Non devono vergognarsi del proprio amore credendo che l’umiltà sia una debolezza: essa è la più terribile forza dell’umanità.

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