La libertà è agli sgoccioli? Il “Durov” j’accuse alle democrazie
Il fondatore di Telegram attacca le misure “distopiche” di controllo digitale in Europa, e non solo: e avverte che il tempo per salvare il free Internet sta per finire

Pavel Durov e il bavaglio alla libertà d’espressione (collage di immagini dalla pagina Facebook di Pavel Durov e da Nomadsoul1 / iStock)
Lo scorso 10 ottobre Pavel Durov, fondatore di Telegram, ha lanciato un nuovo allarme sulle libertà di pensiero, parola ed espressione. Che, soprattutto in Rete, rischiano seriamente di avere i giorni contati, per di più in modo del tutto paradossale. Non, infatti, per le fantomatiche ingerenze di regimi autoritari, bensì, come in Star Wars – Episodio III, sotto gli «scroscianti applausi» delle cosiddette democrazie.

Il j’accuse di Durov sulla libertà
«Fine dell’Internet libero». Si apriva così il monito che, in occasione del suo 41° compleanno, l’imprenditore russo-francese ha affidato al “suo” servizio di messaggistica istantanea, ripetendolo poi su X. «Quella che un tempo era la promessa del libero scambio di informazioni si sta trasformando nel più potente strumento di controllo mai creato».
Nel mirino c’erano le «misure distopiche» à la George Orwell in via di introduzione da parte di «Paesi un tempo liberi». Con particolare riferimento alle «identità digitali (Regno Unito), le verifiche dell’età online (Australia) e la lettura di massa dei messaggi privati (Ue)».

Il primo caso si riferisce al progetto del Premier britannico Keir Starmer di imporre il possesso di un documento di riconoscimento in formato elettronico. Una disposizione considerata un’intrusione dello Stato nella vita dei cittadini, che in UK, ricorda Il Sole 24 Ore, neppure davanti alla polizia hanno l’obbligo di farsi identificare.

A Canberra invece, spiega TGCom24, il nodo riguarda l’individuazione degli under 16, cui il Governo locale intende impedire l’accesso ai social. Che forse però andrebbero vietati tout court, visto l’uso distorto che spesso ne fanno pure gli adulti.

Poi c’è il capitolo Bruxelles, dove si è discusso il Regolamento Chat Control, volto ad autorizzare la scansione automatica anche delle comunicazioni crittografate per combattere la pedopornografia. Per fortuna la Germania vi ha posto il veto, tuonando che «sarebbe come aprire precauzionalmente tutte le lettere per vedere se dentro c’è qualcosa di illegale». E aggiungendo, come riferisce l’Adnkronos, che «nemmeno i crimini peggiori giustificano la rinuncia ai diritti civili fondamentali».

Comunque il dossier è stato solo accantonato, verosimilmente fino a dicembre, e permane sempre il pericolo rappresentato dall’altrettanto liberticida Digital Services Act. E il “Durov”, anzi “Durissimov” j’accuse non finiva certo qui.

Indorare la pillola
Proprio Berlino «perseguita chi osa criticare i funzionari pubblici su Internet», col nadir dell’ex Ministro dell’Interno Nancy Faeser che ha fatto condannare un giornalista per un meme. En passant, “grazie” a una legge a cui successivamente si è ispirato Vladimir Putin, leader del Cremlino, per meglio marginalizzare l’opposizione in patria. Londra «sta imprigionando migliaia di persone per i loro tweet», come il comico Graham Linehan, arrestato per “incitamento alla violenza anti-trans” per una battuta (ancorché di pessimo gusto).

Infine, Parigi «indaga penalmente i leader delle Big Tech che difendono libertà e privacy», cominciando proprio dal diretto interessato. Che peraltro ha denunciato le indebite pressioni della Francia affinché censurasse le voci “sgradite” (quelle dei conservatori) in vista delle Presidenziali in Romania e, prima ancora, Moldavia.
Guardacaso, gli atti e i provvedimenti sopracitati indorano le pillole del bavaglio e della sorveglianza para-sovietica con pretesti quali protezione dei minori o lotta all’hate speech. Che però è un’espressione talmente vaga da poter essere interpretata in base all’ideologia, tant’è che il “nostro” ddl Zan riteneva tale perfino un’opinione negativa sull’utero in affitto.

In effetti, vale lo stesso per il contrasto alle discriminazioni che, salvo eccezioni ben precise e ben riconoscibili, sembrano seguire più il criterio della percezione che dell’oggettività. O alla sedicente disinformazione, che presuppone degli autoproclamati “arbitri della verità”, com’è accaduto spesso e volentieri dallo scoppio della pandemia di Covid-19. Vedasi anche la Commissione Segre contro odio, razzismo e antisemitismo, veri o presunti – purché rigorosamente provenienti dalla parte politica avversa a quella dell’eponima Senatrice a vita.

Il tempo della libertà sta per finire?
D’altronde, soprattutto dopo l’11/9, l’Occidente ha sempre più sacrificato la riservatezza sull’altare di un malcelato senso di sicurezza. E oggi sembriamo esserci abituati agli abusi “istituzionali”, dalle violazioni dell’intimità alla schedatura dei dati personali, a cui ormai chiunque abbia un cellulare cede volontariamente. È la ratio del ricatto di Meta, che impone di accettare il profiling per le inserzioni, oppure di sottoscrivere un abbonamento mensile da 7,99 euro.

Da qui l’amara conclusione del magnate di San Pietroburgo. «La nostra generazione rischia di passare alla storia come l’ultima che ha avuto la libertà – e che ha permesso loro di portarcela via». È anche l’avviso finale ai naviganti del web: «il tempo a nostra disposizione sta per scadere».




