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La Guerra dei Trattori è appena cominciata: gli agricoltori sono a Roma

Tra i manifestanti c’è ostilità verso le associazioni di categoria, considerate timide e colluse col potere governativo. A Roma sono state bruciate le bandiere di Coldiretti

Trattori

L’agricoltura in Europa è strozzata tra chi fa i prezzi dei prodotti e chi impone le regole ecologiche. Si stanno confinando le nostre aziende in un’area sempre più ristretta, dove resiste solo il grande e si favoriscono i prodotti di paesi del terzo mondo, che non devono sottostare alle nostre regole di salubrità e di qualità. Il Made in Italy non è più nel prodotto ma nella conoscenza. Ci vogliono nuove strategie che gli agricoltori non hanno.

Da alcune settimane le immagini dei trattori dominano i nostri media. Blocchi stradali, scontri, proteste, invasioni delle principali piazze cittadine, montagne di letame sui palazzi del potere. In Europa si va diffondendo uno scontro sempre più duro da parte degli agricoltori con il Palazzo. Le immagini di Place de Luxembourg a Bruxelles, sede del Parlamento europeo messa a ferro e fuoco da migliaia di contadini arrivati da Belgio, Francia, Olanda e Italia, hanno fatto il giro del mondo.

La protesta degli agricoltori per ragioni economiche è solo la prima

La conseguenza delle crisi accadute in questi anni porta naturalmente alle rivolte popolari.  Tutto è iniziato in Germania a gennaio. Il governo Scholz è da mesi alle prese con un buco di bilancio di 17 miliardi di euro, e lo colma con una serie di tagli in più settori. Tra le vittime anche il sussidio al carburante agricolo. Una scelta che, in tempi di crisi economica e inflazione, manda su tutte le furie gli agricoltori. Questa è però solo la prima. Le proteste non si fermeranno qui.

Prima o poi anche altri settori colpiti dalla crisi scenderanno in strada, quando a loro si uniranno i cittadini e gli studenti, per il Governo, non solo quello italiano, sarà suonata la campana ma ogni soluzione non può prescindere dalla fine della guerra in Ucraina e forse anche da quella in Medio Oriente. Si vedono già i segnali nelle decisioni di Biden di mettere sotto accusa Netanyahu e cominciare a parlare di uno Stato Palestinese e anche di accordi di pace con Putin e tanti saluti alla difesa del territorio ucraino.

Intanto l’esecutivo tedesco fa una parziale marcia indietro, ma la protesta non si ferma. Anzi, si allarga. Nelle settimane successive cortei di trattori vengono organizzati in Grecia, Romania, Polonia, Belgio.  Le proteste più forti si registrano in Francia, come sempre il Paese in cui basta poco per risvegliare la combattività dei lavoratori che lottano per i propri diritti.

La ragioni degli agricoltori sono ineccepibili ma di corto respiro

La protesta degli agricoltori è dovuta a diversi fattori. I costi elevati e i bassi profitti. Così le aziende producono sotto costo. Tutto è più caro: sementi, fertilizzanti e carburante ma i prezzi dei prodotti restano bassi e a dettare legge sono le grandi distribuzioni, le catene dei supermercati e le borse internazionali che fissano il prezzo del frumento. La pandemia e ora la guerra in Ucraina hanno creato penuria nella vendita del grano destinato alle popolazioni africane.

Quasi non si trova più grano e mais. La guerra però ha anche fatto alzare i costi energetici del petrolio e dell’elettricità. Sono questi prezzi che strozzano le aziende agricole e non solo.  Ma se la protesta si limita a chiedere agevolazioni mentre il mondo corre nella direzione contraria, sarà come mordersi la coda. Il problema è la transizione ecologica necessaria e un altro modello di azienda agricola e di produzione agroalimentare. Mirare a risolvere solo il problema presente del costo del gasolio non cambierà nulla.

Lasciare a riposo il 4% dei terreni agricoli è una norma di buon senso

Farm to Fork, il piano di transizione ecologica per l’agricoltura concordato dai Governi europei, prevede che un 4% dei terreni nelle imprese agricole sia lasciato a riposo, per favorire la rigenerazione naturale dei nutrienti. I proprietari riceveranno dei sussidi per il rispetto di questa norma, ma le aziende non li considerano una soluzione accettabile. “No ai contributi per non coltivare” è uno degli slogan più visti in Italia. Fa effetto pensare di ricevere denaro per non coltivare la terra. In realtà è una distorsione creata dal mercato e dal capitalismo. Produrre per il profitto e farsi guidare dal mercato, invece che dalle esigenze della società porta a queste conseguenze.

C’è allo stesso modo contrarietà verso la decisione (già presa) di destinare all’agricoltura biologica almeno il 25% dei terrenicoltivati e a quella (ancora oggetto di trattative) di ridurre l’uso di pesticidi. Venire pagati per non lavorare, per non produrre, in sé, pare assurdo ripeto, ma l’obbiettivo è quello di far riposare i terreni contaminati per troppo tempo da fertilizzanti e produzioni intensive e consentire un loro recupero biologico.  Sapete che la Pianura Padana è l’area più inquinata d’Europa?  E non solo per l’aria! Altro che Terra dei Fuochi in Campania!

Le aziende agricole sono vessate anche dagli obblighi burocratici

Le normative burocratiche poi che impongono alle aziende agricole una serie di documentazioni infinite per ottenere i permessi necessari, sottraggono tempo e denaro ai responsabili delle aziende stesse. Spesso bisogna tenere fino a oltre 35 libri contabili per ogni azienda e quando hai a che fare con maltempo, coltivazioni e allevamenti è dura seguire tutto.  Le recenti alluvioni e i disastri causati dal cambiamento climatico in numerose zone d’Italia hanno compromesso raccolti e produzioni e gli aiuti governativi stentano ad arrivare. 

Del resto si dice che agricoltura e pesca sono fin troppo sostenute dall’amministrazione pubblica, fino quasi a configurare l’agricoltore come un dipendente statale. È una prassi che non può continuare. Gli agricoltori sono la base dell’economia e della salute di un Paese ma non possono essere stretti nella morsa tra le regole pubbliche il clima e chi acquista i loro prodotti. Bisogna ripristinare il modello di società secondo dettami logici.

Dal Terzo Mondo la concorrenza sleale: prezzi più bassi e prodotti di minor qualità

Un terzo blocco di rivendicazioni è legato alla concorrenza dei prodotti non comunitari. Gli accordi per l’importazione di beni agricoli ucraini è stata la miccia, ma al centro della protesta è il trattato UE-Mercosur, un patto di libero scambio tra l’Unione Europea e alcuni Paesi latinoamericani da anni in discussione. La nostra agricoltura deve sottostare a regole precise per garantire la salubrità dei prodotti, ma spesso subisce la concorrenza dell’agroalimentare che arriva da paesi del Terzo Mondo, dove non si rispettano le nostre regole e si praticano prezzi minori.

Per resistere a questa concorrenza di mercato non ci sono soluzioni, perché finanziare la nostra agricoltura è una non strategia. Impedire che le altre possano farle concorrenza, ovviamente è impossibile, se non con regole autarchiche fuori dalla storia e dalla realtà del mercato di oggi. L’unica strada sarebbe allearsi col “nemico”, in questo caso il paese che pratica prezzi più bassi e aiutarlo a produrre con maggior qualità e vantaggi anche per gli abitanti di quel Paese.

Soprattutto gli agricoltori sono contrari alle regole ecologiche quando dovrebbero esserne i più strenui difensori

Le richieste sono varie, ma su tutte prevale un tema: la contrarietà all’European Green Deal, l’insieme di misure climatiche e ambientali adottate dall’Unione Europea. Questo in linea di massima ma poi le proteste assumono caratteristiche differenti a seconda delle aree geografiche che esprimono malcontento. Alla base di tutto c’è la questione dei soldi. Il prezzo del gasolio aumentato con la crisi energetica fa lievitare i costi delle aziende, già al limite.

Se si parla di ridurre i sussidi ambientali dannosi, compresi quelli per il carburante di origine fossile è perché soprattutto in agricoltura bisognerebbe cominciare questa benedetta transizione ecologica.  Non c’è più tempo per aspettare e rimandare ma del resto non si può fare che tutto il prezzo da pagare per una cosa che interessa alla società e al mondo intero ricada sui nostri contadini europei.

Mettere in atto subito l’economia circolare nelle aziende agricole: niente sprechi, tutto si riutilizza. Così funziona la natura

Bisogna mettere in atto diversi sistemi di produzione di energia, costruire aziende che funzionino a circuito chiuso, ossia che l’energia sia prodotto dagli scarti della loro stessa produzione, con il gas delle deiezioni animali per esempio, oltre che dal sole e dal vento. Esempi virtuosi ce ne sono ma l’investimento inziale è alto e non tutte le aziende possono permetterselo. È su questo punto che dovrebbero intervenire l’Europa e i Governi locali, ma le major del petrolio e del metano, che stanno incamerando grossi profitti, non sono d’accordo e se ne fregano della transizione ecologica, mirando ad accumulare adesso quanti più utili possibili, che per altro, grazie a furbe operazioni di lobby, riescono a non farsi nemmeno tassare.

La Politica Agricola Comunitaria favorisce l’aggregazione dei terreni e danneggia i piccoli

Non si cita quasi più il meccanismo di redistribuzione dei fondi della PAC, la politica agricola comunitaria. È il maggior capitolo di spesa dell’Unione Europea, i fondi vengono elargiti per estensione: chi ha più terra riceva più soldi. Questo incoraggia la concentrazione dei terreni in poche mani. In altre parole, come dice Pierpaolo Lanzarini, un agricoltore emiliano ed esponente di Genuino Clandestino, una rete di realtà contadine impegnate nella produzione locale e sostenibile, “aiuta i grandi e danneggia i piccoli”.

Questo sta succedendo. La eliminazione delle piccole aziende, com’è già successo nel commercio a vantaggio dei supermercati e dei centri commerciali.  Il 10% degli agricoltori più ricchi riceve il 50% dei fondi, mentre al 10% più povero rimane appena il 6% dei contributi europei.

Bisogna assolutamente cambiare queste regole.  Questa richiesta è da tempo al centro delle rivendicazioni del mondo ecologista e di una parte dell’agroalimentare, ma non compare né tra le politiche delle associazioni di categoria né tra gli slogan dei trattori che riempiono le piazze europee in questi giorni. Ancora una volta si scende in piazza, stile forconi, senza una strategia ma per la semplice sopravvivenza.

Perché non si cambiò la PAC per premiare il lavoro invece dei terreni?

Durante l’ultima riscrittura della PAC si propose di invertire il principio di proporzionalità, premiando il lavoro, e quindi il piccolo imprenditore agricolo, rispetto alla proprietà. Ma la proposta non è passata. “Perché si protesta ora contro misure ecologiche ma non si protestò all’epoca per chiedere una riforma che avrebbe dato ossigeno ai piccoli agricoltori?”, conclude Lanzarini. “Beh, è un mistero.” Mica tanto. Le cose sono molto chiare. Così il movimento dei trattori non vincerà mai nessuna guerra, anche se può vincere una piccola battaglia momentanea, facendosi strumentalizzare dai potenti che non vogliono la transizione ecologica, ma scivolare di crisi in crisi fino a controllare i mercati per aumentare i propri profitti, a scapito della salvaguardia dell’umanità. I vorrebbero forze politiche animate da un senso dello stato  e capaci di programmare e pensare al bene del Paese e non solo agli interessi di famiglia.

Questa protesta è insufficiente nella richiesta e gli agricoltori sono lasciati soli

Uno dei sintomi della debolezza della protesta italiana, per esempio è che nonostante la visibilità mediatica (anche qui vedo una strumentalizzazione), l’entità delle proteste è ancora contenuta. Poi manca una strategia di lungo periodo, dovuta all’assenza delle categorie di settore. All’estero le confederazioni agricole guidano i cortei, in Italia prevale l’autoconvocazione. Gran bella cosa la spontaneità e l’autodeterminazione ma da noi sfocia sempre nelle richieste di pancia. Con quelle non si va lontano.

Le associazioni di categoria sembrano condividere le richieste del movimento ma senza partecipare: “Una proposta debole e insufficiente”, dice Cristiano Fini, presidente nazionale della Confederazione Italiana Agricoltori (CIA). Il riferimento è a una delle prime parziali vittorie del movimento dei trattori, la sospensione per un anno dell’obbligo di lasciare a riposo il 4% dei terreni. Non abbastanza per chi protesta, e nemmeno per Fini: “Quello che ci aspettiamo è lo stralcio senza se e senza ma dell’obbligo”.  Per Pierpaolo Lanzarini quella norma della messa a riposo del 4% dei terreni “è una misura di assoluto buonsenso, che sta venendo strumentalizzata fino a posizioni cospirazioniste, in cui una normale pratica di rigenerazione del terreno diventa parte di un complotto per impedire la coltivazione e promuovere il cibo sintetico”.

Appoggiano la protesta ma criticano la possibile strumentalizzazione?

In sostanza contrastano l’unica cosa sensata che aveva proposto l’Unione Europea. Invece di dare al movimento una strategia che tenda a un futuro migliore ci si accontenta di continuare a vivacchiare sul filo del rasoio, fino al prossimo aumento del carburante. Perché sarà inevitabile.

Anche Coldiretti mantiene una posizione simile: non partecipa ai cortei, ma ne appoggia molte delle rivendicazioni. “C’è qualcuno che vuole utilizzare l’agricoltura per avere un po’ di notorietà politica, ma i nostri agricoltori non si faranno strumentalizzare”, diceva poche settimane fa Ettore Prandini, che di Coldiretti è presidente. Notare che le bandiere gialle dell’organizzazione erano presenti a Place de Luxembourg. Quando si dice che altri vogliono strumentalizzare e si partecipa alla protesta, c’è qualcosa che non torna.

L’etichetta sui prodotti alimentari

E, sempre nelle parole di Prandini, la presenza di Coldiretti al presidio di Bruxelles è dovuta alla contrarietà a tutto tondo alle politiche europee: “Dal divieto delle insalate in busta e dei cestini di pomodoro all’arrivo nel piatto degli insetti, dal Nutri-score che boccia le eccellenze Made in Italy al via libera alle etichette allarmistiche sulle bottiglie di vino”. Tutte cose sensate ma evitabili con una corretta informazione e una campagna ben orchestrata su ciò che è vero e ciò che è solo cattiva informazione. Le insalate nella busta sono un obbrobrio salutistico, servono a vendere caro un prodotto senza più proprietà nutrizionali.

Le etichette allarmistiche sul vino sono un nonsense. Serve una cultura del vino. Gli insetti nelle nostre produzioni, per esempio, ci sono da decenni, tritati nei silos col grano e non s’è mai detto niente e fossero solo insetti poi!  Ma anche qui è il mercato che vincerà di fronte a tanta debolezza e assenza di strategia. Ridotti in polveri nessuno se ne accorgerà. Sappiate che nelle patatine che normalmente compriamo al supermercato e diamo ai bambini, c’è da sempre, un colorante derivato proprio da un insetto.

La cocciniglia (o più tecnicamente Dactylopius) è infatti un insetto bianco che vive soprattutto sui cactus, in Centro e Sud America, da cui si può estrarre un colorante naturale rosso acceso. Basta macinare l’esoscheletro degli insetti, renderlo una polvere e unirlo ad acqua calda per ottenere la tinta rossa, che viene usata sia nell’alimentazione (con la sigla E120) sia nella lavorazione dei tessuti.

Il Made in Italy non è più nel prodotto ma nella conoscenza

A organizzare le marce sono sigle neonate come il Coordinamento Agricoltori Traditi di Danilo Calvani, già leader del Movimento dei Forconi nel 2013. Tra i manifestanti è diffusa l’ostilità verso le associazioni di categoria, considerate troppo timide e colluse col potere governativo. A Roma, ad esempio, sono state bruciate in piazza bandiere di Coldiretti, principale organizzazione dell’imprenditoria agricola. Che si batte da sempre per la salvaguardia del prodotto Made in Italy, mentre non ci si vuole accorgere che il Made in Italy non sta più nel prodotto. Quello che si produce in Italia deriva da prodotti solo parzialmente nostrani, molti sono assemblamenti di componenti che arrivano, in varie forme, da altri paesi e che a noi compete quasi unicamente l’idea di assemblaggio tramite il know how.

In altre parole il Made in Italy è la conoscenza con cui si riesce a costruire un prodotto, la costruzione del macchinario per realizzarlo, la strategia di marketing e di vendita ma il prodotto lo potresti confezionare altrove fuori dai confini e sarebbe uguale se non migliore. Se il maiale è una cinta senese ma lo alimenti con ghiande e altri prodotti importati, lo curi con medicinali stranieri, produrrai un prosciutto interamente Dop? Il caffè è uno dei marchi per cui siamo conosciuti nel mondo. Si può ragionevolmente dire che è un prodotto Made in Italy per il prodotto in sé o per come viene tostato, trattato, confezionato e gustato?

Molti formaggi, paste, dolci, si producono all’estero esattamente come se fossero in Italia

Già succede con i formaggi tipo grana e con altri come la Fontina, l’Asiago, il Gorgonzola, i Fior di latte o ora anche la stessa Mozzarella di Bufala Campana Dop. Viene prodotta con la cagliata congelata, spedita oltreoceano, da Caserta. Il latte è nostro, di bufale nostrane, i criteri sono nostri, nostri i macchinari spediti all’estero, nostri gli istruttori, in definitiva nostri i risultati finali, ma il prodotto esce in un Paese straniero. Salta il dazio e il trasporto. Alla fine costa meno del 25-40%% di quello importato. Sì perché i prodotti italiani costano troppo cari, con l’aggiunta dei costi di trasporto per l’export sono diventati assolutamente proibitivi.

L’unica alternativa è produrli all’estero. Cosa credete che facciano gli Italiani in Canada, negli Stati Uniti, in Messico, in Germania, in Russia, in Repubblica Ceca, in Colombia, in Argentina, in Brasile? Producono agroalimentare italiano nello stile Made in Italy. Noi dovremmo riciclarci nel semilavorato, nella fornitura di apparecchiature tecnologiche, nell’addestramento di personale, e compartecipare con nostri investimenti alle produzioni estere del nostro Made in Italy. Guadagneremmo anziché perderci o rischiare di sparire.

Per salvare il nostro patrimonio bisogna collaborare con gli Italiani all’estero

La produzione italiana dovrebbe essere rivolta al mercato interno e coinvolgersi nella produzione di quello estero. Ci sarebbe più spazio, più mercato, si aggirerebbero dazi e difficoltà a esportare.  Come per altri settori l’estero dà più garanzie di lavoro e di trattamento adeguato, di norme che aiutano anziché ostacolare. Funziona in tutti i settori volete che non sia così anche per gli agricoltori?

Se l’Italia volesse risolvere le sue situazioni critiche stringerebbe accordi con i paesi del Nord, Centro e Sud America, dove tanti sono gli Italiani emigrati, enorme è il potenziale produttivo, esteso e in crescita il mercato agroalimentare e la stessa cultura gastronomica. Non si tratta di impoverire l’Italia, ma di salvare il suo patrimonio, coproducendo, dove si può, come sappiamo fare solo noi, con i nostri connazionali che stanno riproducendo il Made in Italy fuori dal Paese.