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Il processo, Franz Kafka

Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi

Praghese di famiglia ebrea e di lingua tedesca, Franz Kafka trasforma in letteratura i molteplici influssi che gli provengono dalle sue radici: il gusto per il magico e il misterioso caratteristico delle tradizioni di Praga; il senso di colpa e l’incubo della persecuzione tipici delle comunità ebraiche in un contesto cristiano; le tendenze al fantastico e all’irrazionale della Germania romantica. Con l’aggiunta delle sue personali ossessioni, diviene così uno dei più grandi scrittori del nostro secolo.

Tra il 1914 e il 1915 a Praga, in un appartamento lasciato libero dalla sorella, Kafka scrive un surreale romanzo e lo intitola “Il Processo”.

Portavoce delle sue angosce esistenziali è il protagonista Josef K., attorno a cui ruotano vittime, carnefici, corrotti e corruttori.

Josef è un procuratore di banca e un mattino, nel suo appartamento, viene svegliato da due poliziotti venuti ad arrestarlo con un ordine di comparizione per un delitto non precisato. L’accusa non viene mai esplicitamente dichiarata e i due poliziotti non arrestano in concreto Josef ma lo lasciano libero di recarsi a lavoro. Qualche giorno dopo gli viene comunicata la data e l’indirizzo dell’udienza del suo processo.

Josef si reca in questo posto che lo lascia stupito e sconcertato. Non è un caso che Kafka scelga una tale ambientazione per il processo, come metafora del mondo della legge.

L’udienza non avrà mai luogo, né mai Josef vedrà i suoi giudici.

Un ricco zio, venuto a conoscenza del processo, entra nella vita del protagonista e lo conduce da un avvocato suo amico, vecchio e melato.

La tranquilla vita di Josef è sconvolta da giorni e notti sempre più ossessionati dal processo, che incombe come una oscura minaccia sulla sua vita. Un giorno, per incarico dell’ufficio si ritrova nel duomo della sua città e lì un prete, il cappellano del carcere, gli racconta una sconcertante parabola. C’è un uomo che aspetta tutta la vita davanti alla porta del tribunale ma l’ingresso gli viene vietato da un guardiano che di continuo gli ripete “Non ora, non ora!”. Quando l’uomo giunge alla fine della sua vita, consumato da quell’eterna attesa, il guardiano beffardamente mentre gli rivela che quella porta era aperta e che lui vi sarebbe potuto entrare in qualsiasi istante, gliela chiude in faccia.

In quel momento Josef si rende conto che al processo non si sfugge, che un potere sinistro e inconoscibile ha già deciso, e che la condanna e la morte sono già in tutta quanta la trama della sua vita…

Attraverso una minuziosa descrizione della realtà, Kafka pone principalmente il grande tema dell’assurdità del potere. L’individuo è dominato da entità anonime e oscure di cui riesce a conoscere soltanto gli emissari, coloro che quel mattino vanno a visitarlo. Il potere si presenta così come qualcosa di radicalmente assurdo in qualunque forma istituzionale, di giustizia, civile e politica.

Il romanzo è anche e soprattutto allegoria del rapporto difficile e crudele di un intellettuale ebraico con la Legge della propria religione.

L’imperscrutabilità della giustizia fa sorgere la domanda del romanzo: perché se non si fa niente di male si può essere ugualmente puniti dalla giustizia?

Ma in ultima analisi, qual è la colpa che Kafka non vuole rivelare?

La colpa di Kafka è di essere “diverso” come figlio, come individuo, come artista, come ebreo.

Quella di Josef è di non aver vissuto fino in fondo la vita e di essersi lasciato andare alla mediocrità di tutti i giorni senza realizzare se stesso.

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