Prima pagina » Opinioni » I morti non fanno rumore. In ricordo dei 165 medici vittime del Coronavirus

I morti non fanno rumore. In ricordo dei 165 medici vittime del Coronavirus

La Federazione elenca i 165 medici, dal primo all’ultimo, come i caduti di una guerra, un moderno Altare della Patria: da Roberto Stella a Cesare Landucci

Covid-19, virus indebolito

Covid-19, virus indebolito

In ricordo dei 165 medici vittime del Coronavirus. I morti non fanno rumore, non fanno più rumore del crescere dell’erba, scriveva Ungaretti. Il presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Filippo Anelli, ha richiamato questi versi per ricordare i 165 medici vittime del coronavirus. Il portale della Federazione li elenca dal primo all’ultimo, come i caduti di una guerra, un moderno Altare della Patria: da Roberto Stella, morto l’11 marzo, a Cesare Landucci, spentosi il 26 maggio scorso. “Non possiamo più permettere che i nostri medici, i nostri operatori sanitari, siano mandati a combattere a mani nude contro il virus. È una lotta impari, che fa male a noi, fa male ai cittadini, fa male al paese”.

165 medici: Non chiamateci più eroi, anche se lo siamo stati

Ha ragione Anelli. Il Covid-19 ha messo a nudo le debolezze della sanità italiana che tutti conoscevamo. Sorprendersi ora, sarebbe perfino ipocrita. Hanno ragione i medici quando quasi con fastidio rigettano l’etichetta di ‘eroi’. “Domani non chiamateci più eroi, anche se lo siamo stati, non ci interessa, non ci è mai interessato. Ma conservate il rispetto per queste divise, per i nostri caduti, per quello che siamo stati, per quello che siamo e continueremo ad essere”, ha scritto tempo fa su Facebook Ilaria Varese per ricordare il collega Gianluca Collo appena morto. Non basta neppure conservare il rispetto, serve restituire dignità professionale a tutti gli operatori della sanità e un servizio pubblico degno di questo paese a tutti i cittadini.

I mali del nostro sistema sanitario

Sembrerebbe chiederlo anche la Corte dei Conti che ha appena pubblicato il “Rapporto 2020 di coordinamento sulla finanza pubblica” dove ha messo nero su bianco i mali del nostro sistema sanitario. Una denuncia passata quasi inosservata. L’organo contabile ha rimproverato alla politica di aver concentrato negli anni “le cure ospedaliere in grandi strutture specializzate riducendo quelle minori, che per numero di casi e per disponibilità di tecnologie non garantivano adeguati risultati di cura”; una scelta che si è accompagnata alla “mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio” che “ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate”. Come la pandemia di Covid-19 ha chiaramente dimostrato. La Corte non rimprovera il tentativo di recuperare più elevati livelli di efficienza, semmai l’aver ignorato la necessità di rafforzare le strutture territoriali che rappresentano il primo vero punto di contatto per i cittadini.

165 medici: i tagli alla sanità negli anni

L’assenza di “una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento di difesa per
affrontare e contenere con rapidità” fenomeni come la pandemia che ha sconvolto l’Italia negli ultimi mesi.

A questo processo di indebolimento aggiungiamoci anche il taglio generalizzato che la sanità ha subìto negli anni, e avremo servito su un piatto la ‘tempesta perfetta’. Tagli non solo di risorse. Ma anche di personale (41mila lavoratori negli ultimi 10 anni), di posti letto (20mila in meno dal 2012 al 2018), di strutture (-4,3% di ambulatori che erogano prestazioni specialistiche).

L’organizzazione delle Regioni

Non è un problema solo di risorse, spiegano gli osservatori più attenti, ma anche di organizzazione, come l’esperienza Covid-19 ha insegnato. Regioni limitrofe tra di loro, investite violentemente dalla pandemia, hanno dato risposte diverse. “Hanno reagito meglio Veneto ed Emilia-Romagna perché avevano investito sul territorio” rispetto alla Lombardia. Perché in Lombardia la riforma del sistema “si è fermata presto”, spiega Americo Cicchetti, Professore Ordinario di Organizzazione Aziendale presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

L’Italia deve ripartire dalla sanità

Analisi, studi, dati, osservatori: ci sono tutti gli elementi per capire come rimediare agli errori del passato. E non lasciar passare invano la drammatica lezione impartita dal Covid-19. Se occorresse scegliere da dove far ripartire il paese, quale settore debba diventare simbolo del tanto declamato rilancio, non ci sarebbe alcun dubbio: la Sanità.

Servono capacità organizzative e risorse. Queste ci sarebbero pure e nell’immediato. I 36 miliardi che il Mes mette a disposizione dell’Italia a costi molto bassi e con la sola condizionalità che vengano impiegati per la Sanità. Ma su questi fondi continua a consumarsi una battaglia ideologica comprensibile solo per ciò che evoca il nome Mes. Ma invece è inconcepibile per l’occasione che si rischia di perdere. Se il nostro paese vuole realmente regalarsi un’occasione di rilancio, dovrà molto più badare alla concretezza e meno alle formule linguistiche.

Il lockdown non ci ha salvato, ha solo distrutto gran parte dell’economia

Nella Regione Lazio diminuiscono i contagi, i dati del bollettino del 01/06

Lascia un commento