Prima pagina » Cronaca » “Ho un ottimo lavoro, però sono solo come un cane. E come me tantissimi altri”

“Ho un ottimo lavoro, però sono solo come un cane. E come me tantissimi altri”

Si chiama Mark Gaisford, ha 52 anni, vive in Gran Bretagna. Ha avuto il coraggio di dire la verità in un video e molti ci si sono identificati

Successo lavorativo. Ma solitudine personale.

Parecchi buoni colleghi. Ma pochissimi amici. O magari proprio nessuno, nel senso pieno del termine. Che è così diverso da chi invece è un semplice conoscente: con cui ci si saluta e magari si scambiano anche due parole su questo e su quello, ma rimanendo comunque molto più vicini all’estraneità che alla confidenza.

Già: se ci si vede, ci si riconosce. Quando ci si vede – accadesse pure tutti i santi giorni – non ci si conosce. Non si è interessati a farlo. E infatti non lo si fa.

Mark Gaisford è un cittadino britannico. Ha 52 anni e una posizione lavorativa invidiabile, specialmente in questi ultimi anni di crescenti difficoltà a trovare un impiego stabile e retribuito come si deve: è il responsabile di un’impresa che si occupa di reclutamento del personale.

Tutto bene, quindi?

Manco per idea. I soldi arrivano a scadenze regolari. L’esistenza scappa via a ogni istante. Quando hai da fare in azienda perché hai da fare. Quando finalmente ti liberi da quegli impegni, e in teoria ritorni padrone del tuo tempo, perché ti ritrovi a corto di relazioni significative e non sai cosa fare di te stesso. Sul piano materiale potrebbe andare peggio o addirittura molto peggio. Continuando così non andrà mai meglio, come significato profondo del tuo stare al mondo. Sull’estratto conto della banca il saldo è ampiamente positivo. Dentro di te sei in “rosso fisso”.

Dice Gaisford: “Sono davvero fortunato perché ho dei colleghi di lavoro fantastici e naturalmente condividiamo le nostre vite. Ma non li porto fuori a cena e non faccio lunghe passeggiate in campagna con loro. Non faccio cose con loro come fanno gli amici”.

Non è uno stupido. È abituato a osservare anche gli altri. Aggiunge: “Non sono solo io, che non ho amici. C’è un numero incredibile di persone e soprattutto uomini nel Regno Unito che hanno pochissimi amici”.

La domanda successiva è già implicita in queste due osservazioni. In queste due constatazioni. Una domanda che è ovvia per un verso. Ma che per l’altro viene ignorata, innanzitutto da parte dei politici e di chi altri ha interesse a lasciare che le cose continuino a procedere in questo modo. Ignorata. Rimossa.

Una domanda che va al cuore del problema: è a causa dell’attuale modello economico, che siamo indotti a vivere in una maniera che è agli antipodi di ciò che rende la vita davvero degna di essere vissuta?

Mark, e tutti noi, davanti a un bivio

Ci siamo talmente dentro – talmente sprofondati h24 – da fare fatica anche solo a immaginarcelo, che le cose potrebbero andare diversamente.

Potrebbero. Dovrebbero.

E tra le tante cose che ci sfuggono, come in un mosaico di cui cogliamo solo l’immagine complessiva ma non le singole tessere, c’è l’atteggiamento competitivo da cui siamo stati contaminati. Un po’ per volta, fino alla saturazione finale. Senza quasi che ce ne accorgessimo. Senza che ci ribellassimo o che, quantomeno, ne avvertissimo lucidamente il desiderio. La necessità.

Quell’approccio guardingo-aggressivo che nel lavoro è ormai la prassi e che finisce per accompagnarci in ogni dove. Poiché chiunque è un nostro potenziale concorrente, ai fini dell’ottenimento di un qualche tipo di vantaggio, viene meno il presupposto stesso della vera amicizia: la sostanziale gratuità di ciò che facciamo. Di ciò diamo, senza nulla pretendere in cambio. E di ciò che riceviamo, senza perciò sentirci in debito. La gratitudine che ci scalda il cuore non è per i benefici ottenuti. È per la benedizione dell’amicizia in sé stessa.

Vale per le amicizie autentiche. Dovrebbe valere anche, sia pure con minore trasporto emotivo, per i rapporti con gli altri, se le nostre fossero comunità incentrate su valori affini, anziché società, di cui quelle odierne sono l’espressione parossistica, accecate dal tornaconto: non un contenitore di egoismi contrapposti, ma un habitat di interazioni armoniose.

Mark Gaisford ha compiuto il suo primo passo, lungo la strada del ripensamento. O forse si è solo affacciato sul bivio fondamentale: ha visto – ha constatato sulla propria pelle – che le strade del lavoro e quelle degli affetti si biforcano. Irrimediabilmente.

La domanda, ora, è se si fermerà sulla soglia di questa rivoluzionaria consapevolezza, lasciandosi riassorbire dalle consuete routine, o se riuscirà a proseguire.

Una domanda che vale per lui. Una domanda che vale per chiunque altro, di noi, che si trovi in condizioni analoghe e non sia completamente inaridito dalla siccità interiore del benessere esteriore.

Ovvio: le amicizie vanno coltivate con cura, quando ci sono.

Meno ovvio: nell’attesa, va predisposto con altrettanta dedizione il terreno in cui potranno attecchire.

Lascia un commento