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Governo di unità nazionale: salvare l’Italia con una ripartenza in 5 mosse

Un Governo di unità nazionale non piace a tutti. E’ un governo di compromesso, a breve termine e la sua efficacia è solo emergenziale, ma…

18 maggio

Giuseppe Conte, capo del Governo

Un Governo di unità nazionale non piace a tutti. E’ un governo di compromesso, inadatto per obiettivi di lungo termine e la sua efficacia è solo emergenziale. Come dargli torto? La parola “compromesso” sta a indicare un accordo che, attraverso rinunce reciproche, consente ai singoli partiti di raggiungere un fine comune. Nell’immaginario popolare però, il compromesso evoca aspetti negativi, qualcosa di insoddisfacente, compromettente appunto, che si eviterebbe volentieri se si avesse la forza di fare da soli. Ma la politica è l’arte del compromesso, cioè della ricerca continua di quel punto di equilibrio nel quale si sentano rappresentati più cittadini possibili. Semmai si può discutere se quel compromesso porti o meno a un miglioramento, ma il superamento delle divergenze, in politica come nei rapporti tra le persone, è sempre auspicabile.

Il Massimo Comun Divisore

L’accordo tra visioni divergenti comporta tuttavia un equilibrio instabile, condizione che la fisica esemplifica con l’immagine di una pallina collocata sulla parte convessa di una superficie curva. La pallina resta in equilibrio se nessuno la tocca, altrimenti cade. Che affidamento può dare un Governo basato su questo tipo di equilibrio? Meglio l’equilibrio stabile, nel quale la pallina, anche se toccata, ritorna sempre al punto di equilibrio. Ma nella storia d’Italia i governi stabili o di lunga durata sono rarissimi. Insomma, bisogna trovare quello che la matematica definisce “Massimo Comun Divisore”. Anche se i nostri politici, nei loro discorsi, dicono sempre di essere alla ricerca di un “minimo comun divisore”, che non esiste in matematica e nemmeno nella logica.

Governo di unità nazionale: circostanze eccezionali, Governi eccezionali

Abbandonando la matematica, che fa venire il mal di testa più della politica, quando un partito non ha la forza di governare da solo deve trovare degli alleati. Ed è un bene, perché le alleanze ampliano la base del consenso. Persino la DC di De Gasperi, che nel 1948 arrivò a un passo dall’avere la maggioranza assoluta dei voti, formò un governo di coalizione con i socialdemocratici. Ma come insegna la teoria degli insiemi, maggiore è il numero dei componenti la coalizione e minore è il numero delle cose che li accomunano. Per questo i governi di larghe intese funzionano solo nell’emergenza e per fare poche cose. Nel dopoguerra servì per avviare la ricostruzione, negli anni di piombo servì per sconfiggere il terrorismo, più di recente, dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, servì a mettere ordine nei conti, con una faticosa politica di tagli e sacrifici. Insomma, governi per circostanze eccezionali.

Una nuova emergenza alle porte

L’emergenza del Covid-19 ci costringe a fronteggiare una nuova e altrettanto pericolosa emergenza, che riguarda la salute della nostra economia. Le macerie già si vedono: disoccupazione e povertà crescenti, PIL in rovinoso calo, aziende al collasso. Diversamente dal passato, non c’è un Paese da ricostruire fisicamente e un “Piano Marshall” che ci aiuti, né c’è un nemico comune, come il terrorismo, da combattere. Ma ci attendono scelte altrettanto difficili ed ineludibili, che riguardano la riorganizzazione dello Stato, gli investimenti pubblici, la ridefinizione del welfare. Scelte che non possono essere compiute da un governo debole o preoccupato di perdere voti. Serve un governo capace di fare scelte, mantenendo allo stesso tempo la pace sociale; almeno per il tempo necessario ad avviare la ricostruzione.

Unico programma: salvare l’Italia

L’alternativa sarebbe l’indizione di nuove elezioni politiche. Ma a parte il rischio di un nuovo risultato senza vincitori, sarebbe incompatibile con l’urgenza di fronteggiare la crisi incombente e sarebbe pericolosa per il clima di rabbia e disperazione nel quale si svolgerebbe. In questo momento, nel quale passata la paura del virus subentra la preoccupazione e il disagio di gran parte della popolazione italiana, servono equilibrio e lucidità, cioè l’opposto di quello che avviene in campagna elettorale. Le ragioni per cercare una larga intesa ci sono tutte. Anche perché l’unico programma da attuare è quello della salvezza dell’Italia. Che non può essere ostacolato, sia chiaro, dalle pretese di questa o quella categoria, né dalla difesa di questo o quel diritto acquisito, soprattutto se quel diritto è ingiusto o illogico. E arriviamo alle dolenti note, che riguardano le scelte da fare. Non per rattoppare l’Italia, ma per farla rinascere.

Ripartenza in cinque mosse

Quali sono? Ma quelle che ci diciamo tutti da anni, nei bar, negli uffici e nelle cene a casa di amici. Provo ad elencarne alcune, mettendo per prime quelle necessarie ad affrontare l’emergenza. Una legge “a termine”, chiara e di facile comprensione, “all’anglosassone”, che per un periodo prefissato abroghi o rimuova tutto ciò che rallenta l’avvio delle attività imprenditoriali. Conseguente trasferimento all’imprenditore e ai professionisti che lo assistono, della responsabilità di certificare che le norme basilari, di igiene, sicurezza e fiscale, siano rispettate. Controlli e verifiche successive sulla regolarità amministrativa, con la possibilità di avere un immediato contraddittorio innanzi a un “giudice di pace” al quale spetti di decidere, molto più rapidamente del TAR, sul contenzioso. Procedure giudiziarie semplificate, “all’americana” per le eventuali violazioni penali. Sanzioni severe e di immediata efficacia che prevedano anche l’inibizione perpetua dall’attività, tanto dei professionisti quanto dell’imprenditore che abbiano cerato di fare i furbi. Infine, non rabbrividite, la libertà incondizionata, per un biennio, di assumere e licenziare il personale senza vincoli, con l’obbligo, alla scadenza del biennio e in caso di prosecuzione dell’attività, di convertire in contratti a tempo indeterminato i precedenti contratti a termine.

Chi lascia la strada vecchia sa quello che trova

Vedo già qualcuno che arriccia il naso. Ma dove sono i pericoli di questa semplificazione? Non si tratta affatto di idee azzardate e nemmeno originali, perché sono le regole adottate da sempre in quei Paesi che hanno la nostra stessa democrazia, ma un’economia decisamente più solida della nostra. Poche regole semplici sono lo strumento indispensabile per favorire chi vuole fare bene, sottraendolo alle lentezze e alle angherie della burocrazia, che preludono alla corruzione. Controlli rigorosi, sulla base di quelle regole semplici sono, a loro volta, il presupposto per punire chi vuole fare il furbo. Strumenti di garanzia immediati ed efficaci sono quelli che offrono certezze di giustizia a chi investe, obbligando alla lealtà coloro che sono addetti ai controlli. Sanzioni severe, immediate ed inevitabili, sono il presupposto per dissuadere i furbi di entrambe le categorie. Una giustizia rapida, infine, è preferibile alla giustizia lenta che conosciamo, persino quando c’è il rischio di fare qualche errore, dato che l’altro sistema di errori ne ha fatti fin troppi.

Le garanzie sono nella costituzione

Di strumenti di garanzia, che consentano di correggere gli eventuali errori, se ne possono trovare infiniti, senza togliere snellezza ed efficienza al sistema. Persino sotto il profilo sindacale sarebbe meglio: il lavoro, senza i legacci che frenano chi vuole investire, si troverebbe più facilmente e i diritti resterebbero intatti. Nessun imprenditore è così stupido da licenziare un bravo dipendente solo perché rivendica i diritti sanciti dalla Costituzione. Se “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” è dal lavoro che bisogna partire, togliendo tutti gli ostacoli che ne impediscano la crescita. Non bisogna preoccuparsi di rischiare qualche errore se quel rischio ci evita di farne decine. E chissà, sperimentando per un biennio qualcosa di nuovo, potremmo scoprire di essere sulla buona strada per avere un’Italia migliore.

Scelte di prospettiva per migliorare

Sul piano generale e di prospettiva il discorso è più complesso, ma il mio elenco di semplice osservatore è fatto ancora una volta di poche cose. Innanzitutto, un regime fiscale semplificato e meno vessatorio, soprattutto per le imprese e le attività produttive. Dite che si perderebbero dei proventi essenziali? Probabilmente molti meno di quanti ne abbiamo persi con l’attuale sistema, farraginoso, punitivo e ingiusto, che ha fatto sparire miliardi con l’evasione fiscale. Le sanzioni feroci per gli evasori vanno bene, ma hanno senso solo con un sistema equo, che favorisca il rispetto della legge. Serve poi un programma di grandi investimenti pubblici nella manutenzione del territorio, che faccia da volano all’immenso indotto che ruota attorno a quelle attività. Poi bisogna finanziare in modo robusto la modernizzazione dell’istruzione secondaria e dell’Università, fornendo le stesse condizioni di base a tutti gli studenti, che sarebbero chiamati a dimostrare il loro valore, in un giusto regime di selezione meritocratica.

La ricerca scientifica

Ultima, ma non per importanza, la ricerca scientifica, che da Cenerentola deve trasformarsi in regina per sviluppare, soprattutto sul versante della cosiddetta economia verde, un sistema di eccellenze coinvolgendo in sinergie paritarie le istituzioni pubbliche e le aziende private. Provvedimenti che ho esposto in estrema sintesi, certamente incompleti, che gli esperti saprebbero precisare e qualificare meglio di me. Ma ho la certezza che il costo di questa operazione, qualunque esso sia, sarebbe inferiore a quello che pagheremmo se rimanessimo fermi o ci accontentassimo di essere gli stessi di prima.

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