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Gli Stati generali progettano il Rilancio ma dal 2001 le riforme ci danneggiano

Gli Stati Generali non hanno usato, come base di partenza, il piano Colao, che piaceva molto a Confindustria per l’impostazione ultraliberista

Gli Stati Generali, Giuseppe Conte

Gli Stati Generali, Giuseppe Conte

Gli Stati generali. Ancora stentiamo a dare inizio a piani concreti per uscire dalla crisi del Covid con il minor numero di danni possibili. E con la vaga ma diffusa coscienza che, comunque vada, ne usciremo abbastanza male. Molti commentatori finora ci hanno detto che la  crisi sarebbe un’opportunità non soltanto per  risanare i nostri mali cronici, ma addirittura per costruire una società più giusta, equa, solidale e inclusiva. Tanti aggettivi che al momento sono privi di significato, poiché non collegati ai sostantivi che rappresentano la quotidiana realtà sociale. Eppure, oltre che dai giornalisti, questi termini sono stati usati (anzi abusati) anche e soprattutto da tutto il ceto politico e dal governo del nostro Paese.

Stati Generali. Rivendicazioni e consigli

Una prova è stata il famoso piano Colao, di cui abbiamo già parlato. Poi, l’indizione degli Stati Generali, assemblea alla quale sono state invitate, oltre all’opposizione politica che ha opposto il proprio diniego, le rappresentanze del mondo economico, professionale e sindacale. Lo scopo è stato quello del confronto sui problemi da affrontare, in modo che ognuno desse il suo contributo alla loro risoluzione.

Il Governo di Conte avrebbe quindi il compito di formulare una sorta di sintesi hegeliana: sforzo veramente titanico, seppur possibile. Non possiamo certo azzardare previsioni sui risultati futuri degli Stati Generali. Possiamo però osservare intanto che il piano Colao, che piaceva molto a Confindustria per l’impostazione ultraliberista, non è stato usato come base di partenza per i lavori. Ciò perché il Governo, giustamente, si preoccupa non soltanto dei pilastri dell’economia, ma anche del Welfare.

Le richieste di Confindustria e l’urgenza delle riforme

Rilevante è stato il discorso del presidente di Confidustria, Carlo Bonomi, il quale, pur ammettendo “Colpe ed errori di tutti negli ultimi 25 anni”, ha rivendicato il pagamento del debito arretrato (50 miliardi) della P.A. (Pubblica Amministrazione), la restituzione delle accise (3,4 miliardi) sull’energia e della CIG (cassa integrazione guadagni). Inoltre ha lamentato il ritardo nell’erogazione di liquidità alle imprese.

Nel fornire poi indicazioni per la ripresa, ha sottolineato tre priorità essenziali: produttività del lavoro; qualità ed efficacia della spesa pubblica; sostenibilità della spesa pubblica e riduzione del debito dello stato. Anche al fine di giustificare il sostegno che l’Italia riceverebbe dalla UE nei prossimi anni. Per realizzare l’ultimo punto occorre tagliare la spesa sociale, come si fece per esempio con la riforma del sistema pensionistico del 2011 (legge Fornero).

Gli Stati generali: il senso delle Riforme e la loro urgenza

Quindi, è necessario e urgente che si facciano delle riforme, come ci chiede con forza (ci impone) anche l’Europa. In definitiva, nel discorso di Confindustria ci sono soltanto consigli, anzi direttive per l’attività futura del Governo. Nulla  riguardo ai compiti del mondo imprenditoriale, eccettuato il generico: “faremo la nostra parte”. Non c’è che dire. D’altronde, oggi si straparla di riforme da parte di tutti e a tutte le ore, in ogni dibattito politico o economico. E’ diventato un ritornello continuo e martellante come il più ossessivo spot pubblicitario, il cui scopo è convincere irrazionalmente l’individuo ad acquistare un prodotto o ad assumere un certo stile di vita. Tra parentesi, questa modalità è stata usata anche con le esortazioni ai cittadini riguardo l’igiene ed il distanziamento necessari per contrastare la pandemia.

Ma cosa significa “riforma”?

A questo punto, indaghiamo sul significato di riforma e sull’uso che si fa di questo termine.

Tra la fine degli anni ’60 e gli inizi ’70, nella Prima Repubblica, essendo in vigore il sistema proporzionale, si formavano governi di coalizione dopo la tornata elettorale. A quei tempi si discuteva della necessità di riforme di struttura, intendendo cioè riforme sociali, aventi come oggetto la difesa del lavoro e l’impiego di parte della ricchezza prodotta in beni e servizi garantiti dallo Stato ai suoi cittadini.

La realizzazione di simili riforme era ispirata alla teoria keynesiana del Welfare, non alla dottrina  di uno stato socialista sovietico.

Lo statuto dei lavoratori e lo smartworking

Ad un governo di quell’epoca si deve il varo dello Statuto dei Lavoratori: legge che sanciva la libertà di associazione e di espressione sul posto di lavoro, limitava il controllo per mezzo di guardie giurate alla difesa del patrimonio aziendale e vietava quello effettuato per mezzo di impianti audio- televisivi. Quest’ultimo problema è oggi surclassato dalla potenza degli strumenti digitali e dalla trasformazione della prestazione di lavoro, da essi consentita, in smartworking.

Gli Stati generali: oggi si concepiscono due tipi di riforme

Il primo, fortemente agognato dal Gotha dell’Industria e della Finanza internazionale, è di stampo economicista, il  cui effetto è quello di limitare il diritto di tutti a una vita almeno dignitosa. Esso si sostanzia nelle modifiche della retribuzione del lavoro, dei contratti e delle assunzioni, che hanno prodotto diminuzione del potere d’acquisto e precarietà.

Ricordiamo che fu un governo di centrosinistra (quello di Prodi, che ci inserì nell’Euro) ad introdurre le prime forme di contratto a termine, da allora divenute l’unica forma di impiego, a parte i posti privilegiati nella P.A. I teorici riformisti innamorati della Globalizzazione asserivano che ormai l’individuo doveva abituarsi a cambiare lavoro più volte nell’arco della sua vita, a “reinventarsi”, anzi a diventare l’imprenditore di se stesso! I successivi governi di centrodestra (Berlusconi) hanno ereditato con piacere quelle riforme del mercato del lavoro, migliorandole ovviamente a favore degli imprenditori.

Riforme costituzionali: Regioni, sindaci e malcostume

Il secondo tipo di riforme è quello che riguarda organi fondamentali inscritti nella Costituzione e il relativo sistema elettorale. Ci riferiamo alle Regioni, istituite per amministrare meglio i territori tenendo conto delle loro specificità economiche, oltre che storiche.

La riforma del Titolo V, fatta dal centrosinistra nel 2001, si dice per contrastare la spinta federalista (per meglio dire, secessionista) della Lega. Ma in realtà voluta dal PD per incrementare il proprio peso a livello locale, ne ampliò a dismisura i poteri nella gestione autonoma di edilizia, scuola e sanità. Il risultato fu l’incremento esponenziale del malaffare, di cui ora si scontano le colpe nel disastro della Sanità pubblica di fronte alla pandemia.

Indifferenti a ciò e coscienti del loro potere, ora le Regioni rivendicano anche autonomia fiscale e legislativa totale; quelle dirette dalla Lega sono in prima linea, pretendendo di trattare da pari a pari con il governo centrale, atteggiandosi come Stati all’interno dello Stato.

Gli Stati generali: il malcostume si alimenta spontaneamente

Si sa che il malcostume si rigenera in modo spontaneo, come le cellule cancerogene in un organismo. Può essere però molto favorito da leggi coniate ad arte, o sbagliate.

Una di queste è, a mio avviso, la legge maggioritaria per le elezioni nei Comuni. Prima di essa, il sindaco veniva scelto all’interno del Consiglio Comunale eletto con il sistema proporzionale. Così pure gli assessori che costituivano la Giunta, presieduta dal Sindaco stesso.

Tutto era frutto di pazienti mediazioni politiche; ma, ad un certo momento, questo metodo fu corrotto dal sistema delle “cordate”, cioè la raccolta clientelare del voto. E allora si affermò che il primo cittadino doveva essere eletto direttamente dai suoi concittadini e le liste elettorali portano in testa il nome del candidato sindaco.

Gli Stati generali: qualche volta il rimedio è peggiore del male

La nuova legge assegna al vincitore poteri superiori rispetto alla precedente. Infatti, il Sindaco nomina gli assessori che comporranno la Giunta, avendo facoltà di scegliere anche cittadini non eletti, ma che egli giudica “competenti” per l’incarico. Inoltre, è facoltà del Sindaco nominare i dirigenti degli uffici dell’amministrazione comunale, stabilirne la retribuzione e infine revocarli, se giudica insoddisfacente il loro lavoro.

In aggiunta, se un ufficio compie errori gravi nell’applicazione di una delibera, ne risponde penalmente, mentre il Sindaco non ne è responsabile diretto. Questo a causa di una contorta legge sulla responsabilità della P.A., che porta il nome di legge Bassanini.

Il sindaco diventato un Dominus

Insomma, il sindaco appare come un vero e proprio Dominus. Sembra molto difficoltoso che si arrivi all’incriminazione di un Sindaco e di una Giunta; eppure, oggi la cronaca ce ne fornisce molti casi.

Ci si potrebbe porre il problema della formazione delle liste uninominali e della caccia al voto che si fa molto prima del giorno delle votazioni, nonché di singoli o gruppi di potenti che finanziano le spese. Davvero non ha insegnato niente l’ascesa del sindaco di Firenze con la sua macchina elettorale, i convegni della Leopolda?

Certo, oggi il Matteo fiorentino è abbastanza screditato. Gioverebbe però ricordare che il novello “dolcestinovista”, appena messo a capo del Governo nel modo maramaldesco a tutti noto, entrò nell’aula del  Senato con le mani in tasca come un qualunque discolo in un’aula di scuola, e salutò i presenti augurandosi che fosse l’ultima volta.

Matteo Renzi, il sindaco d’Italia

Poiché già aveva in mente di eliminare quel consesso come un qualunque ente inutile; poi,  aumentare i poteri del premier in modo tale da divenire il Sindaco d’Italia. Non gli andò bene. Ma le aspirazioni presidenzialiste all’italiana sono sempre in agguato, presenti in forme diverse nei vari schieramenti politici,  che richiedono il voto dei cittadini come il parere di un sondaggio demoscopico solo quando fà comodo a loro.                         

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