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Gli dèi nel tempo della povertà. L’ultima lotta di Giuliano l’Apostata

Il cristianesimo, viceversa, è un costante tentativo di oscuramento, a partire da quella mortificazione delle ragioni del corpo

Statua di Giuliano l'Apostata

Statua di Giuliano l'Apostata

In un passo importante del suo “Dopo Nietzsche”, intitolato “Vita eterna e lunga vita”, Giorgio Colli fa un’affermazione importante: “‘Dio è morto’, ha detto Nietzsche, con una frase troppo celebre. Nell’aggiunta: ‘E noi l’abbiamo ucciso’ si tradisce una tracotanza razionalista, si avverte il rigurgito – Dio lo perdoni! – di un fanatismo illuministico. Ma gli dèi sono ancora vivi, almeno alcuni di essi. E questo perché Dio ‘era’ eterno, un gelido idolo prodotto e distrutto dalla ragione, mentre gli dèi vivono ‘una lunga vita’, secondo la parola di Empedocle” (1974, Adelphi, p. 99).

Dispute millenarie

Quella tra spirito pagano e spirito cristiano è una lotta dura e con poche esclusioni di colpi, che non investe soltanto la tarda antichità, ma l’essenza stessa dello spirito occidentale.

Per chi è laico, ateo, lontano dalle gerarchie ecclesiastiche, non esiste medicina migliore di quella della cultura politeista del mondo greco e romano. Su questo ‘fronte’ hanno militato Omero, i grandi Presocratici, Socrate, Platone e Aristotele, fino a epicureismo e stoicismo e al neoplatonismo, che ha segnato di sé la tarda antichità. Man mano che il mondo antico tramonta, diviene sempre più difficile mettere a fuoco un centro, individuare un’identità al di là delle differenze particolari e specifiche…

Non si tratta di un problema nuovo. Dal punto di vista spirituale, l’epoca di Marco Aurelio, che morì nel 180 d. C., appare molto diversa da quella di Giuliano l’Apostata, che invece perì nel 363 d. C., ossia nella seconda metà del IV secolo d. C. La differenza consiste in questo: l’epoca di Marco Aurelio è ancora una civiltà classica, nei tempi, nei modi di fare politica e di organizzare il pensiero – si pensi ai meravigliosi “Ricordi” dell’imperatore-filosofo! Giuliano, viceversa, è un transfuga che prova a resistere alla dissoluzione e al crollo finali.

Laddove, infatti, in Marco Aurelio c’è una incredibile forza di carattere, determinazione, fermezza; in Giuliano, viceversa, c’è lo slancio di un’anima appassionata che, per un’ultima volta, prova ad invertire il corso della Storia.

Restaurare gli antichi dèi

Se c’è una qualità superiore dello spirito di Giuliano è questa: egli intuisce la problematicità del cristianesimo, con una nettezza di sguardo e una fermezza pari a quella di Marco Aurelio. Bisognerà aspettare l’epoca contemporanea, per ritrovare, nel pensiero di Nietzsche, uno spirito e un sentimento analoghi.

Per seguire la falsariga del celebre saggio di Heidegger, contenuto in “Sentieri interrotti”(1950) e intitolato “Perché i poeti?”, Giuliano si pone il problema degli antichi dèi nel tempo della povertà. Nel tempo in cui il cristianesimo, dopo Costantino, è divenuto aggressivo, vincente. Heidegger si ispira, in quel grande saggio, a un interrogativo di Hölderlin, contenuto nella grande poesia “Pane e vino”: “e perché siano poeti in tempi di privazione (in dürftiger Zeit)” (trad. it. di E. Mandruzzato). Giuliano, dunque, in tempi di povertà, si pone il problema degli dèi e prova a ridare vigore agli antichi culti.

Poiché, qualsiasi spirito pensante non può non constatare come lo sguardo sull’uomo e sulla realtà prodotto dall’antichità classica, sia più libero e aperto alla vita rispetto al cristianesimo. In quel grande libro che è “L’Impero romano”, alla fine del capitolo su Giuliano e in relazione al rapporto Giuliano-Costantino, Santo Mazzarino fa questa affermazione: “la antitesi fra il nipote e lo zio è la chiave per intendere la storia dell’impero romano”.

Ossia, la lotta tra lo spirito dell’antico paganesimo e la religione nuova, il cristianesimo, che tanto doveva ampliare e sviluppare lo scollamento dalla realtà della futura cultura europea e occidentale. Da questo punto di vista, l’ultimo Nietzsche è nettissimo. Il culto degli antichi dèi, Dioniso in primis, non stravolge ciò che noi possiamo capire della realtà circostante.

Il cristianesimo, viceversa, è un costante tentativo di oscuramento, a partire da quella mortificazione delle ragioni del corpo, che non ha nessuna ragion d’essere, sotto nessun profilo. Per arrivare ad uno sguardo edificante e ottimistico sulla vita, al pensiero della vita come dono, ancora una volta smentito dalle tragedie che ci investono ogni giorno.

Tra cultura arcaica e post-modernità

Da questo punto di vista, il tardo Habermas si trova ad osservare le cose, da un punto di vista differente rispetto a quello di chi scrive. In “Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia” (2012, ed. it. Laterza), egli propone l’idea di una società post-secolare che rinneghi, di fatto, il laicismo che, da Kant a Freud fino a Adorno, ha caratterizzato la cultura dell’illuminismo.

Del resto, Habermas non è un estimatore di Nietzsche, come tutti sanno. Ingessato in un’argomentazione di tipo accademico – come lo era, per motivi opposti, Emanuele Severino – sfugge ad Habermas che la ricchezza della religione proviene dallo spirito arcaico. Dalla tradizione delfica, sapienziale e presocratica della Grecia; dalla tradizione orientale dell’antichissima India, dell’induismo e del buddhismo. Da questo punto di vista, Cristina Campo e Roberto Calasso ne sapevano molto di più.

Per concludere questa breve nota, vale la pena, allora, ricordare il ritratto di Giuliano, che Gore Vidal attribuisce a Gregorio di Nazianzo, nel suo splendido romanzo intitolato “Giuliano”. Scrive Vidal: “Aveva il collo instabile, le spalle in continuo movimento: le alzava e le abbassava come due bilance, facendo roteare gli occhi e lanciando occhiate da una parte e dall’altra con espressione quasi da pazzo.

I piedi erano malfermi e spesso incespicavano, le narici fremevano d’insolenza e di sdegno, l’espressione del viso era grottesca, e spesso scoppiava a ridere senza ritegno; assentiva e dissentiva a sproposito, troncava le frasi a metà per respirare, le sue domande non avevano né senso né ordine, e le risposte non erano certo meglio delle domande…” (1964, ed. it. Fazi, p. 172). L’epoca dei maestri assoluti dell’azione e della parola, l’età di Cesare e Marco Aurelio, era tramontata completamente