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Di Maio vacilla ed è giusto. Perché i veri capi non si inventano a tavolino

Indiscrezioni e smentite si rincorrono, ma la posizione del “capo politico” dei Cinque Stelle è sempre più debole

Sì, no, forse. Le versioni contrapposte non smettono di fioccare ed è ovvio che non manchino le strumentalizzazioni, in chi le strombazza a livello mediatico. Allo stesso tempo, però, di sicuro non è solo fumo e anzi ci troviamo di fronte a un’accelerazione. Tutt’altro che imprevista, per quanto ci riguarda.

Ma andiamo con ordine.

Due giorni fa il Fatto Quotidiano, che è particolarmente vicino al M5S e che di certo non lo osteggia per partito preso, dava per incombenti le dimissioni di Luigi Di Maio. Lo staff del ministro degli Esteri si è affrettato a smentire, liquidando la versione del quotidiano come “una narrazione, con tanto di fantomatica data delle dimissioni, che appare decisamente surreale”.

Di surreale, invece, non c’è proprio nulla.

Quali che siano le intenzioni del diretto interessato, il dato di fatto è che la sua credibilità come guida del Movimento (o dell’ex movimento, come ormai bisognerebbe dire visto che le dinamiche sono sempre più analoghe a quelle degli altri partiti) è in caduta libera. Non solo per l’altissimo tasso di litigiosità dei parlamentari pentastellati, ma per una serie di fondatissimi motivi. Per non dire vizi.

Un cumulo di abbagli e di incoerenze che in Di Maio, e nella sua nomina dall’alto a “capo politico”, trovano il loro esempio per eccellenza, e che però vanno di gran lunga al di là delle sue caratteristiche personali. Dei suoi pochi pregi e dei suoi moltissimi limiti.

I pregi che si esauriscono in una discreta dialettica da talkshow: una sorta di telegenia delle parole per cui non si sfigura nei confronti con i competitori, e i conduttori, di turno. I limiti che emergono nelle innumerevoli mosse sbagliate, ma che discendono da una lacuna tanto radicata da essere pressoché insormontabile: la mancanza di un effettivo acume nella lettura dei problemi sociali ed economici. Una deficienza personale – peraltro imputabile alla generalità della classe politica nazionale, inaridita dalla “selezione al contrario” che premia gli yes-men e le anguille del consenso al ribasso – che è ulteriormente aggravata dal non disporre di un’ideologia di riferimento.

Già. Nella società liquida qualcuno galleggia con più facilità, specialmente se si tiene attaccato, o in scia, alla flotta delle oligarchie liberiste. Molti altri sono a continuo rischio di inabissamento, dovendosi barcamenare alla giornata e stabilire di volta in volta cosa fare o non fare. Nel tentativo, o nella messinscena, di soddisfare sia un elettorato che vorrebbe la luna, sia quei poteri internazionali che esigono ubbidienza. Quantomeno sugli aspetti sostanziali, a cominciare dall’economia.

Politiche 2018: lo zenit degli equivoci

Le contraddizioni sono esplose con le due esperienze di governo. Ma la verità è che era tutto sbagliato fin dall’inizio. E che continuava a esserlo anche nel momento del trionfo elettorale di due anni fa, quando il M5S arrivò a sfiorare il 33 per cento.

Poteva sembrare un incendio inarrestabile. Era solo un fuoco di paglia, anche se di proporzioni eccezionali. Un enorme crepitare di consensi apparenti, benché numerosissimi. Apparenti perché non si erano aggregati intorno a nulla di preciso ma sull’onda di una suggestione: la speranza obiettivamente folle che si potesse (che si possa) rivoluzionare l’Italia da un giorno all’altro.

Magari fosse così. Ma non lo è. Un’infezione che si è diffusa lungo decenni e decenni non la guarisci con un singolo ciclo di cure, neanche se lo fai a colpi di dosi urto. E figuriamoci, poi, se invece dei veri medicinali hai solo le vitamine della rabbia popolare.

Era tutto sbagliato anche allora, solo che l’exploit nelle urne lo nascondeva. Paradossalmente, anzi, quel risultato così brillante era proprio l’apoteosi delle debolezze costitutive: uno straordinario catalizzatore del malcontento popolare, tanto capace di intercettarlo a suon di aspettative mirabolanti quanto inadeguato a trasformarlo in azione politica concreta, non appena si fosse passati dai proclami da comizio alle decisioni normative e di governo.

L’aggregazione era così vasta, e accelerata, da inebriare. Poi si è capito che era una sbornia, e con vino di scarsa qualità.

Il messaggio di rinnovamento, e quasi di rivoluzione, era tanto potente quanto vago. Facile innamorarsene. Facilissimo ingannarsi.

Di Maio, nonché gli altri eletti nelle file del M5S, sono allo stesso tempo le concause della patologia e le sue vittime, accecate talvolta dall’entusiasmo facilone e talaltra dall’ambizione smodata. Ammesso che avessero delle vere potenzialità – che purtroppo non coincidono affatto con le buone intenzioni – non si sono sottoposti al percorso indispensabile per svilupparle davvero, temprandole nelle fornaci dell’esperienza concreta.

Non è l’importanza del palcoscenico, a trasformare un dilettante in un mattatore.

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