Cittadinanza accelerata: ci hanno provato e sono andati a sbattere. Ecco perché
Persino tra gli elettori di area progressista c’è una parte consistente che vede nell’immigrazione un problema da gestire con la dovuta cautela

Miseramente, per di più. Niente quorum, che al pari dei quattro referendum sul lavoro è rimasto lontanissimo, e soprattutto un numero cospicuo di voti contrari: benché la stragrande maggioranza delle persone che si sono recate ai seggi fosse lontana dal centrodestra, che infatti aveva invitato all’astensione, i sì al “quesito numero 5” si sono fermati al 65,5 %. Mentre i no sono arrivati al 34,5.
Il significato politico è chiarissimo. Persino tra gli elettori di area progressista c’è una parte consistente che vede nell’immigrazione un problema da gestire con la dovuta cautela. Guardandosi bene, quindi, dal facilitarla.
L’obiettivo sia dei promotori, con in testa +Europa, sia di chi si è accodato in seguito, come Elly Schlein e il PD, era appunto questo. Abrogare l’attuale limite dei dieci anni di residenza in Italia per ottenere la cittadinanza, allo scopo di poterlo poi ridurre a cinque.
Anzi, ad appena cinque. Spianando così la strada non solo ai diretti interessati, il cui numero è stimato in due milioni e mezzo, ma anche ai moltissimi altri che ne avrebbero goduto di riflesso. Sulla base di quelle norme sui ricongiungimenti familiari che permettono di riunire moglie e figli e che per gli stranieri sono subordinati a un nulla osta.
Ma che invece, oplà, sono consentiti di diritto ai “familiari stranieri di cittadini italiani, di cittadini dell’Unione Europea, o di uno Stato parte dell’Accordo sullo Spazio economico europeo (Islanda, Liechtenstein, Norvegia)”.
Nessun incentivo, a chi viola le regole
I termini veri della questione erano e sono questi: agevolare oppure no la trasformazione in cittadini italiani degli stranieri, a cominciare da quelli arrivati qui in maniera irregolare con i famigerati barconi o con altri mezzi abusivi.
Un aspetto essenziale, perché attenuare i requisiti equivale a lanciare un messaggio sbagliato e pericolosissimo.
Vuoi venire in Italia senza visto d’ingresso? E fare finta che i nostri confini nazionali non esistano? Vuoi mettere tutti noi di fronte al fatto compiuto che “ormai sono qui e ci dovete pensare voi”?
No problem.
Secondo i paladini dei migranti è giusto così. Per ragioni che definiscono umanitarie ma che in realtà hanno obiettivi di tutt’altro genere, dall’afflusso di manodopera a basso costo (e a diritti infimi o persino nulli) all’acquisizione di un elettorato compiacente e pronto ad appoggiare chi li ha beneficati.
Un lassismo che oscilla tra ipocrisia e dabbenaggine. Tra la retorica sciocca di chi ama sentirsi “buono” e il calcolo cinico di chi mira a cancellare le identità preesistenti. Fregandosene, manco a dirlo, delle ripercussioni che ne derivano, quando gli alati discorsi sull’integrazione si incagliano sulla cruda realtà delle convivenze coatte tra gruppi etnici che sono e che restano estranei.
Per il semplice ma gigantesco motivo che nelle loro terre di provenienza avevano convinzioni e costumi diversi – sino all’incompatibilità con i nostri – e che non sono disposti ad abbandonare soltanto perché vivono stabilmente in una società di stampo occidentale.
Il mito dell’integrazione “automatica”
All’origine poteva essere un’idea suggestiva e in attesa di verifica. Col tempo si è irrigidita in un dogma, come nelle peggiori ideologie, e ha ignorato sistematicamente, capziosamente, le innumerevoli dimostrazioni della sua infondatezza.
L’idea, vedi il proverbiale ma fallimentare melting pot statunitense, è che la coesistenza quotidiana condurrà, o prima o poi, ad appianare le reciproche differenze. Finendo con l’amalgamare tutti in una visione dell’esistenza che è sostanzialmente omogenea e che rende le relazioni sociali pacifiche, o quantomeno non conflittuali, riducendo le residue specificità a preferenze secondarie.
Un po’ come se fossero dei comportamenti privati, dal cibo che si mangia agli hobby che si praticano. Ognuno ha i suoi e li coltiva per conto proprio o con coloro i quali li condividono, ma senza alcun rischio di farne dei motivi di attrito o di scontro: dettagli soggettivi che non interferiscono con le dinamiche collettive.
Bello. Ma falso.
La verità è che in molti casi le differenze di partenza non sono affatto di poco conto, ma l’esatto contrario. Scaturiscono da un lunghissimo passato che si è radicato in profondità e che forma un nucleo permanente. Un senso di identità e di appartenenza che è un tutt’uno con i singoli individui e che è ulteriormente rafforzato dai legami famigliari o etnici. Tanto più quando si innesta su elementi di natura religiosa: non nella chiave laicizzata e sempre più blanda che da noi è la regola, ma con l’adesione viscerale e acritica di chi continua a pensare che quelle in cui crede siano verità metafisiche. E in quanto tali indiscutibili.
Il senso di rivalsa
Aggiungeteci i rancori postcoloniali, o l’istintivo risentimento di chi ha molto sofferto verso chi invece è cresciuto negli agi, e il quadro si aggrava. Un grandissimo numero di quelli che approdano in Occidente non arrivano ispirati dalla gratitudine ma da un desiderio di rivalsa. Che, al di là dell’esserne consapevoli o meno, li renderà inquieti o persino ostili.
Sono tutti fattori che metterebbero a dura prova anche una società equilibrata ed efficiente. Ma che nella nostra realtà italiana risultano ancora più difficili da gestire, subissati come siamo da vizi antichi e problemi nuovi: la scarsa crescita economica, la sanità pubblica con le liste d’attesa infinite, il sistema giudiziario che non sa o non vuole stroncare la piccola e la grande criminalità. Eccetera eccetera.
Non sono analisi astratte. È vita reale e concreta. E chi ne sopporta il peso sono i cittadini comuni, che ogni giorno si trovano a dover fare i conti con tutto quello che non va.
Il referendum glielo ha chiesto: volete affrettare la cittadinanza agli stranieri? La risposta, nelle urne e fuori dai seggi, è stata inequivocabile: un no, un NO, che riflette una verità elementare. Non abbiamo bisogno di stranieri travestiti in quattro e quattr’otto da italiani, ma di nuovi e sinceri connazionali.
Ammesso che questo sia davvero possibile.
Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia