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Auto elettriche: la scienza ci crede, l’industria frena, noi ci rimettiamo

Nell’Unione Europea nel 2030 circoleranno oltre 30 milioni di vetture elettriche e ibride, quindi studiare come ottenere batterie meno costose è essenziale

Auto elettrica

Si frena per continuare a guadagnare procrastinando il passaggio all’elettrico, evitando gli investimenti e il cambio delle linee di montaggio. In altre parole ignorando colpevolmente il problema dell’inquinamento atmosferico e il danno alla salvaguardia dell’ambiente.

Mentre la Cina, approfittando della pausa dovuta alla pandemia, ha accelerato sulla produzione di batterie al litio e di auto elettriche e ora guida il comparto a scapito dell’industria europea, giapponese e nord americana, il mondo si interroga sul futuro di questo settore che vede il colosso asiatico sempre più dominante e le nostre economie sempre più dipendenti. Ma non è l’unico dei problemi, altri riguardano la necessità del passaggio all’elettrico per motivi di salvaguardia dell’ambiente.

Le critiche all’elettrico spostano in avanti un passaggio necessario

Sul futuro delle auto elettriche pesa il fatto che le centrali che debbono fornire l’energia sono alimentate a petrolio o a gas metano e, nei casi peggiori a carbone, il che rende non dico inutile, ma limitato il ricorso alle auto elettriche per diminuire l’emissione di gas di scarico (CO2) nell’aria. Vedremo come questo sia un equivoco, in parte creato a proposito. Recentemente questa tesi è stata avanzata dalla rivista Journal of Industrial Ecology e viene sostenuta dai fautori di un passaggio lento all’auto elettrica. Altre critiche sull’uso di questa tecnologia derivano da una ancora scarsa presenza di colonnine di ricarica e dal tempo ancora eccessivo per la stessa.

Anche nel caso di quella superveloce (fast) si richiede sempre almeno mezzora, se non qualche ora. Il ché, in un viaggio a lunga percorrenza, incide sulla durata del viaggio stesso. Il numero dei cicli di ricarica inoltre ha un limite: 4.000 per le batterie al litio. E dopo? Dove smaltiremo queste batterie?

Le ricariche elettriche possono anche essere veloci ma sono rare

Attualmente esistono tempi diversi di ricarica a seconda dell’auto e della potenza delle colonnine. Le ricariche casalinghe sono, secondo me, da non considerare perché richiedono tempi di parecchie ore, del tutto improponibili già oggi figuriamoci domani, per un mercato maturo di sfruttamento di queste tecnologie. Sul sito “tate.it elettrica” viene esemplificata la situazione delle ricariche al momento: “La ricarica alle colonnine fast è quindi ben più costosa di quella domestica, con differenze che a seconda del contratto possono anche portare ad un costo che quadruplica. La ricarica domestica è però per sua natura molto più lenta, con potenze che in genere variano da 2 kW a 5 kW a seconda del tipo di impianto installato e della potenza massima del contratto sottoscritto.

Utilizzando una colonnina da 100 kW di potenza massima, collegando una vettura con batteria al 10%, un tempo di 30 minuti è in genere sufficiente per poter ripristinare la ricarica della batteria sino ad un valore compreso tra il 70% e l’80%. Si tratta dei classici valori ai quali si ricaricano al massimo le batterie alle colonnine fast così da ottimizzare la sosta in modo da ridurre la durata dell’operazione e al contempo caricare quanto necessario la batteria.

Le ricariche fast devono quindi essere utilizzate solo quando necessario, cioè quando si vuole ripristinare la capacità della batteria in modo rapido perché ad esempio si è nel mezzo di un viaggio di lunga percorrenza.

Lo smaltimento delle batterie e il problema del particolato emesso nelle frenate

C’è il problema del costo delle batterie e del loro smaltimento ed in più il fatto che non ci si libererebbe dalla dipendenza a pochi paesi detentori delle miniere di litio (Australia, Cile e soprattutto Cina), componente essenziale di queste batterie.

Infine la questione dei freni. Nella frenata si libererebbe particolato (polveri sottili) dovuti all’abrasione della gomma dei dischi, altamente inquinante. L’usura dei freni varia tra il 16 % e il 55 % della massa totale di particolato sulle emissioni del traffico stradale non di scarico in ambiente urbano. Queste minuscole particelle potrebbero avere un impatto negativo sull’ambiente e sulla nostra salute. “I freni si consumano nel tempo e quindi producono particelle di usura. Alcune di queste particelle aderiscono al cerchio della ruota, mentre altre cadono a terra o si disperdono nell’aria”, afferma Guido Perricone, responsabile dello sviluppo materiali di Brembo Italia.

Il particolato è stato collegato a malattie e decessi per malattie cardiache o polmonari. L’Organizzazione mondiale della sanità ha raccolto prove scientifiche sufficienti per affermare che l’esposizione più dannosa al particolato è l’esposizione a lungo termine alle particelle fini (PM2,5).

Sono possibili freni che disperdono meno particolato ma non basta

Con l’obiettivo di ridurre del 50 % le emissioni di particolato dai freni, il progetto finanziato dall’UE Lowbrasys ha studiato le emissioni dei freni e ha sviluppato nuove soluzioni utilizzando materiali più resistenti per dischi e pastiglie dei freni e un sistema di cattura del particolato da frenate. “I test hanno dimostrato che il nostro materiale di rivestimento è più resistente all’usura e riduce il numero totale di particelle di circa il 90 %, limitando al contempo la massa totale di particolato del 25 %. I dischi si differenziano dalla tecnologia attuale perché hanno rivestimenti ceramici sui tradizionali dischi freno in ghisa”, spiega Guido Perricone.

Questo è il massimo possibile, attualmente, ma non si può evitare una diffusione di polveri sottili nell’aria durante la frenata e anche richiamare l’automobilista a frenate più responsabili (non eccessive, dovute ad una alta velocità, per capirsi), non può dare risultati certi e confortanti nel tempo.

Tutte queste cose insieme pongono dubbi sulla effettiva efficacia del passaggio decisivo all’elettrico, perché non sarebbe ancora maturo dal punto di vista delle soluzioni che ci consentirebbero di liberarci dalla dipendenza dalle fonti energetiche fossili, la vera causa dei nostri guai presenti e futuri.

Il piombo delle batterie attuali inquina mentre il litio no

A tutto questo ha risposto Valerio Rossi Albertini, fisico del CNR, comunicatore che da anni si batte per una informazione corretta a sostegno delle innovazioni scientifiche. Non sempre vengono rese note al grande pubblico e non solo per disattenzione o impreparazione della stampa ma, ritengo, per diversi interessi economici occulti, che tendono a rallentare le fasi di trasformazione da un mondo produttivo ad un altro. Così si posson sfruttare appieno i vantaggi che danno all’industria i vecchi sistemi di produzione e di alimentazione energetica.

Gli autori dello studio -sostiene Valerio Rossi Albertini – fanno presente che alcuni dei componenti dell’auto elettrica, come ad esempio le batterie, contengono elementi nocivi per l’ambiente e, pertanto rappresentano, un rischio potenziale (cosa peraltro nota e sempre tenuta in considerazione). D’altra parte, le batterie al piombo dei veicoli tradizionali, universalmente diffuse, inquinano enormemente di più, perché il piombo appartiene alla categoria dei metalli pesanti, mentre il litio no.

Concetti scientifici e scarse conoscenze utilizzati a proposito per confondere il pubblico

Secondo Albertini si tende, in malafede, a fare confusione tra l’emissione di anidride carbonica da combustione, che altera il clima del pianeta ma non è un gas tossico e la produzione di gas di scarico e di polveri sottili che invece sono molto tossici. Per altro sono gas che si concentrano nei centri urbani favorendo l’inquinamento delle città.

Ora, è pur vero che l’estrazione del litio per le batterie ha un qualche impatto sull’ambiente e sulla salute, –sostiene Albertini– ma minimo a confronto alle 60 mila morti l’anno in Italia, certificate dall’Agenzia Europea dell’Ambiente, a seguito di patologie dovute all’inalazione di polveri sottili. 60mila!

Le auto elettriche non emettono affatto polveri sottili da combustione e producono quantità trascurabili dai freni, perché il loro sistema di frenamento è basato su campi magnetici che non generano particolato. Basterebbe questo per preferirle ad ogni mezzo di trasporto con motore a combustione interna.

In un veicolo elettrico (o anche ibrido), l’energia viene creata dal movimento del motore, il quale ha assorbito energia dalla batteria per avviarsi. Il sistema di frenata rigenerativa funziona in modo opposto: se il veicolo frena o rallenta, in questo caso è l’energia cinetica ad azionare il motore. In caso di frenata o di un rallentamento, il motore elettrico funziona in maniera inversa trasformandolo in una sorta di generatore di energia. Dunque, invece di consumare energia, la produce. La corrente prodotta, come detto, viene poi utilizzata per ricaricare l’accumulatore. Insomma si frena col motore non con l’attrito sulle ruote.

Se si sollevano polveri sottili dalla strada la colpa è di chi le solleva o di chi le ha fatte depositare?

L’acronimo PM deriva dal termine inglese “Particulate Matter” (materiale particolato o polveri sottili della dimensione di vari micron (µ), dove 1 micron corrisponde ad un millesimo di millimetro) ovvero quell’insieme di particelle microscopiche, solide e liquide, di diversa natura e composizione chimica, che si trovano in sospensione nell’aria che respiriamo. A seconda della loro dimensione convenzionalmente si distinguono le polveri sottili in PM10, PM2.5 e PM1 dove il numero dopo la sigla PM sta ad indicare la grandezza del diametro della particella.

In una nota dell’Ansa, ma è anche uno dei temi dell’industria automobilistica legata al presente (e al passato), si sostiene che “Il fatto che le auto a gasolio emettano meno PM10 nel funzionamento rispetto a quelle elettriche, è legato al fatto che, essendo più pesanti per la presenza delle batterie, sollevano più polveri nella circolazione su strada. Va ricordato al riguardo che il particolato che giace al suolo è oltre 10 volte di più rispetto a quello emesso dagli scarichi”.

Quindi, si domanda Albertini, se le auto e i camion diesel depositano il particolato al suolo, la colpa è delle auto elettriche che, essendo più pesanti, ne sollevano di più?

Perfino la grammatica viene aggirata: emettere significa buttare fuori e non sollevare da terra. I diesel emettono particolato, le auto elettriche al massimo lo sollevano come ogni altro mezzo che passa sulle strade, anche noi camminandoci o percorrendo la strada in bicicletta. Ma il problema è proprio Non emetterlo!

L’intero parco di auto elettriche nazionali può essere alimentato dallo 0,1% della produzione fotovoltaica italiana

Se adottassimo questo parametro potremmo addossare all’auto elettrica tutte le responsabilità dell’industria automobilistica che si fonda sui criteri produttivi attuali.

Se alimenti l’auto elettrica con energia prodotta da centrali a petrolio, la colpa è dell’auto elettrica o delle centrali a petrolio? “Si da il casosostiene Albertiniinvece, che l’attuale parco di veicoli elettrici in Italia può essere interamente alimentato con circa lo 0.1% della produzione fotovoltaica italiana (avete letto bene, l’un per mille). Quindi, per quanto riguarda le auto elettriche, le centrali a carbone (o a petrolio) potete spegnerle anche stasera!

Nella conclusione dell’articolo del Journal of Industrial Ecology, si legge: “Tuttavia è svantaggioso promuovere i veicoli elettrici in paesi dove l’elettricità è prodotta con olio combustibile, carbone e lignite”. Forse bisogna cogliere l’occasione per dare una spallata a un sistema arcaico e dannoso per l’ambiente come quello che impone il passaggio totale e indiscriminato all’elettrico. Ora che si ponga il problema dei tempi di questo passaggio, per motivi di riassetto dell’industria automobilistica e del suo indotto, lo trovo legittimo ma che bisognerebbe meditare su questa necessità mi pare altrettanto importante.

Io stesso avevo forti dubbi sulla possibilità di passare al mercato dell’auto elettrica in tempi brevi. Dubbi che ho ancora per il fatto che i costi dei veicoli sono comunque notevoli e che le possibilità di ricarica delle batterie e di punti di ricarica sono ancora inaccettabili, per la mobilità dei cittadini. Ma intanto un Governo degno di questo nome dovrebbe pensarci e dare indirizzi e incentivare ricerche e investimenti per accelerare questo passaggio, non per frenarlo. Se oggi un’auto elettrica costa tra i 30mila e i 37mila euro, nelle versioni più ridotte, magari fra dieci anni potrà costare meno di un terzo. Come succede per qualsiasi nuovo prodotto, vedi i telefoni cellulari, i televisori, i computer.

Le batterie al sodio, possono essere un’alternativa valida ed economica al litio

Come paese possiamo recuperare il tempo stupidamente perduto nella tecnologia dell’elettrico, investendo sulla ricerca delle batterie al sodio. La tecnologia delle batterie per i veicoli elettrici è in continua evoluzione. L’obiettivo delle aziende del settore è realizzare batterie agli ioni di litio sempre più performanti, in grado di garantire oltre 1.000 Km di autonomia con una ricarica. Allo stesso tempo si stanno progettando anche le batterie per auto elettriche del futuro, sperimentando nuovi materiali e tecnologie per trovare delle alternative alle batterie al litio.

Un’alternativa sono le batterie ricaricabili sodio-zolfo, dispositivi di accumulo a sali fusi costituiti da sodio liquido (Na) e zolfo (S) noti da oltre 50 anni. Una famiglia contraddistinta da un’elevata densità di energia, un’alta efficienza di carica/scarica e un lungo ciclo di vita (più di 1000 km).

In Europa queste batterie potrebbero alimentare gli oltre 30 milioni di vetture elettriche e ibride del 2030

Si ritiene che nell’Unione Europea nel 2030 circoleranno oltre 30 milioni di vetture elettriche e ibride, quindi studiare come ottenere batterie meno costose e con maggiore resa in termini di autonomia chilometrica è essenziale, anche per staccarci dalla dipendenza del litio che risulterebbe simile a quella dal petrolio. Per questo alcuni produttori di batterie sono impegnati nella ricerca e nello sviluppo delle batterie allo stato solido, con l’obiettivo di superare i limiti prestazionali degli attuali accumulatori al litio. Si tratta di una tecnologia simile rispetto a quella agli ioni di litio, tuttavia, nelle batterie allo stato solido gli elettroliti sono solidi anziché liquidi.

Così si ottiene più densità di energia con una maggiore stabilità e velocità in fase di ricarica! Si possono ridurre i tempi di ricarica e un incremento dell’autonomia del veicolo dell’85%. Per fare questo occorre dare più fiducia alla ricerca scientifica e provare a immaginare un futuro, neanche tanto lontano, in cui le soluzioni ai nostri problemi non vadano cercate tra quelle del presente ma inventate ex novo.

Le batterie all’idrogeno liquido sono già possibili

Per esempio una società trentina ha realizzato il primo prototipo di batteria a idrogeno basata su una tecnologia ibrida idrogeno/liquido, composta da due serbatoi collegati e un dispositivo elettronico. Quando la batteria è in carica l’elettricità da immagazzinare arriva nel primo serbatoio, dove viene innescata una reazione chimica che libera l’idrogeno, dopodiché viene compresso e stoccato a bassa pressione nel secondo serbatoio. Quando deve fornire energia si rimette in contatto l’idrogeno con la soluzione chimica del primo serbatoio, le molecole si ricompongono nel liquido per generare energia.

Queste batterie a basso costo consentirebbero 15 mila cicli di ricarica e non 4.000 come le batterie al litio.

Una compagnia americana ha messo a punto batterie metallo/idrogeno. Sono accumulatori che la Nasa utilizza per alimentare veicoli spaziali e satelliti. Hanno una densità energetica elevata ma ancora sono troppo care per essere prodotte su larga scala. Il fatto è che sarebbero praticamente quasi immortali e garantirebbero l’88% di efficienza dopo 20 anni!

Le batterie al manganese potrebbero essere quelle prescelte nel futuro per le auto elettriche

Qualche costruttore sta sperimentando le celle nichel-manganese-cobalto (NCM), ossia delle batterie innovative che permetterebbero di produrre auto elettriche con più di 1.000 km di autonomia. Sono accumulatori composti da manganese, un metallo molto economico che consentirebbe di mantenere bassi i costi di produzione, per offrire sul mercato batterie ad alta efficienza a prezzi competitivi.

Inoltre, le batterie che adottano celle del tipo litio-manganese-ferro-fosfato (LMFP) garantirebbero una maggiore densità energetica rispetto a quelle del tipo LFP (basate sulle celle litio-ferro-fosfato). Oltre al costo contenuto, l’elevata densità energetica consentirebbe di realizzare batterie più compatte con un notevole risparmio di peso, aspetti fondamentali per ottimizzare i consumi energetici e massimizzare l’autonomia.

Ma non solo, si studiano anche batterie al silicio nanocomposito (NCS) con prestazioni elevate e maggiore autonomia. Oppure batterie ai nanofili d’oro. Queste sono ancora allo studio in America. I nanofili d’oro sono mille volte più sottili dei capelli e potrebbero sopportare fino a 200mila cicli di ricarica! Poi ci sono le batterie agli ioni di sodio. In Cina hanno già prodotto un’auto alimentata con questa batteria.

L’Europa potrebbe impegnarsi di più nella ricerca e per imporre un cessate il fuoco negli scenari di guerra che frenano il progresso

In questo campo l’Unione Europea sta conquistando il mercato delle batterie agli ioni di sodio, che sono la nuova frontiera dei sistemi di accumulo di energia. Una delle alternative più promettenti al litio. In gioco ci sono il predominio su sistemi fondamentali per le auto elettriche e le rinnovabili, nonché un mercato che raggiungerà 2,66 miliardi di dollari da qui al 2030, secondo l’ultimo rapporto di Straits Research. Anche l’Italia è in corsa ma la Cina non sta a guardare e la sfida è aperta. A queste cose dovrebbero guardare le nostre economie e i nostri Paesi, invece di farsi invischiare in guerre, armamenti, distruzioni che alimentano solo odi e creano problemi, senza risolverne alcuno. E non ditemi che noi non possiamo fare niente.

Possiamo levare la nostra voce, come fa la Spagna, il Belgio, la Francia per fare pressione e cambiare le decisioni della Nato sull’Ucraina e verso l’acquiescente politica sulla follia distruttiva di Israele, che non migliorerà la condizione degli stessi israeliani in Medio Oriente. Questi conflitti possono allargarsi molto facilmente se non vengono subito bloccati. Si devono dirigere le energie verso soluzioni di vita migliore per tutti, mettendo da parte odi e occasioni di conflitto. La sfida che abbiamo di fronte, quella della salvaguardia dell’ambiente, non si risolverà con guerre marginali che ne rallentano ogni possibile soluzione.