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Asino chi non legge. Asino chi non legge. Asino chi non legge… i libri

In dieci anni, e solo a Roma, hanno chiuso in 223. Un impoverimento collettivo che non può essere sanato dalle vendite online

Le ultime due ad abbassare per sempre le saracinesche, qui nella Capitale, sono della catena Feltrinelli: la International di via Emanuele Orlando e quella di via Giovanni Pierluigi da Palestrina. Ma chi sia il proprietario conta relativamente poco. Ciò che è essenziale, invece, è che il fenomeno persiste da anni e che le cifre complessive sono ormai nell’ordine delle centinaia.

Una tendenza poderosa. E inquietante. Che evoca una domanda terribile: e se chiudessero tutte, le librerie romane? Una dopo l’altra, fino a svanire completamente dalla città: 1287,36 chilometri quadrati senza più un luogo in cui entrare, girovagare tra gli scaffali carichi di volumi, alla bisogna chiedere aiuto agli addetti, magari scambiare qualche parola di approfondimento sulla tale opera o sul tale autore.

La possibilità che questo accada davvero sembra assurda, al momento, ma anche ammettendo che non si arrivi mai a un esito così estremo, la progressiva desertificazione è in atto e il tessuto urbano ne risulta impoverito.

Anzi, per chi sia abituato ad avere nelle sue mappe mentali le librerie che non ci sono più e si trovi a vederle rimpiazzate da negozi di tutt’altro genere, è come osservare dei buchi. Degli strappi rappezzati malamente con delle toppe di materiali molto meno nobili. O innaturali. Nylon, addirittura plastica, là dove c’erano sete preziose o quantomeno del buon cotone. O la calda lana dei grandi romanzi e dei saggi fondamentali. O il lino leggero, e spiegazzabile senza imbarazzi, dei testi meno impegnativi.

A tantissimi altri, invece, non importerà un accidente. Sono quelli che nelle librerie non ci entrano mai, o se anche lo fanno è solo per un acquisto occasionale da concludere in fretta. Quelli che ritengono identico comprare i libri recandosi in negozio di persona oppure online.

Identico. O persino preferibile.

Un atteggiamento soltanto pratico che è agli antipodi dell’amore per la cultura. Fondato viceversa sul piacere della curiosità e sul bisogno della scoperta. Quella scoperta che è il parente nobile della semplice sorpresa.

Librerie, che meraviglia

Non si sta mai perdendo tempo, quando ci si aggira tra i libri e non si sa ancora su quale fermarsi. Per chi lo abbia sperimentato, e appreso in via definitiva, lasciar vagare lo sguardo sulle pareti o sui banconi costellati di ogni sorta di opere è un delizioso miscuglio di rilassatezza e di vigilanza. Non si ha nessuna meta prefissata. Si è pronti a seguire qualsiasi richiamo che prefiguri un luogo inatteso e attraente sul quale dirigersi.

La mente è aperta. Lo sono anche i sensi.

Di un libro – stampato su carta, si intende – si scandaglia innanzitutto il contenuto, ma non si rinuncia a saggiarne le caratteristiche materiali. La copertina rigida o flessibile. La consistenza delle pagine. La maggiore o minore grandezza dei caratteri. Il loro tipo. Perché anche quei simboli convenzionali che sono le lettere dell’alfabeto possono ambire a una propria estetica. Ne hanno il diritto. Forse il dovere.

Poi, leggendo, saremo risucchiati dal significato delle parole e non ci faremo più caso. Non consciamente, almeno. Ma in qualche modo avvertiremo quella piccola bellezza supplementare. Come un pavimento pregiato sul quale camminare pensando ad altro, ma che resta diverso e migliore di un linoleum dozzinale o di una distesa di piastrelle pacchiane.

Troppo complicato, per qualcuno di voi?

Peccato. Ma è anche per questo che così tante librerie finiscono col chiudere. Per la fretta sempre più diffusa di andare dritti allo scopo, dimenticando o ignorando che in certi casi il percorso non è un sovrappiù di cui disfarsi il più rapidamente possibile, ma un tutt’uno con l’approdo finale.

E d’altronde la lettura stessa non ha un vero e proprio scopo, tranne che in quei casi in cui sia una necessità obbligata. La lettura, al suo meglio, non è un’incombenza da sbrigare. È un regalo che facciamo a noi stessi. È il lasciapassare che ci concediamo per uscire dai territori più o meno angusti della vita quotidiana e affacciarci su quelli potenzialmente sconfinati di (citando il titolo di un vecchio album di Teresa De Sio) un libero cercare.

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