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USA, disastro Bloomberg. La pubblicità non basta, se manca un’idea forte

Moltissimi spot ma nessun messaggio davvero potente. L’ex sindaco di New York crolla nel Super Tuesday e si ritira

Reazione istintiva: una risatina soddisfatta. Il multimiliardario Mike Bloomberg è uscito miseramente dalla corsa alla nomination dei Democrats USA, in vista delle Presidenziali del prossimo novembre. E per “pagarsi” questa pessima figura ha bruciato 700 milioni di dollari. Per lo più in pubblicità: una miriade di spot per magnificare sé stesso come candidato alla Casa Bianca. In funzione anti Trump, manco a dirlo.

L’idea – anzi l’allucinazione – era quella di un’entrata trionfale nel pieno della contesa. Invece di partire come tutti dai caucus dell’Iowa, che tradizionalmente danno inizio ai confronti tra i diversi aspiranti alla designazione finale, l’ex sindaco di New York si era chiamato fuori dai primi appuntamenti e aveva rinviato tutto alle votazioni di martedì scorso. Il cosiddetto Super Tuesday che coinvolge in simultanea 14 stati, tra cui i popolosi Texas e California che esprimono, da soli, 643 delegati su un totale nazionale di 3.979 (ai quali vanno poi aggiunti i 771 “super delegati” che non sono vincolati a priori e che perciò saranno liberi di decidere al momento chi appoggiare nella Convention che quest’anno si svolgerà a Milwaukee, Wisconsin dal 13 al 16 luglio).

Un programmino ambizioso: lascio che gli altri si scornino nei match preliminari, poi arrivo io nel giorno clou e sbaraglio la concorrenza.

Un programmino fallimentare: mentre Sanders e Biden facevano il pieno, Bloomberg si è arenato a quota 57 e di fronte alla debacle ha deciso, inevitabilmente, di farsi da parte. Missione fallita e ritiro ignominioso, più che doveroso.

Trump se l’è goduta da par suo. Da par suo ha commentato via Twitter con un rozzo ma calzante “Mini Mike ha buttato via con lo sciacquone 700 milioni di dollari”. Un compiacimento che ha una prima spiegazione del tutto ovvia nel venir meno di un avversario straricco, e quindi capace di investimenti quasi illimitati nell’ipotetico scontro a due per la presidenza.

A un secondo livello, invece, le motivazioni sono meno scontate. E dovrebbero chiarire in via definitiva, a chi non lo avesse ancora capito, quanto fiuto politico ci fosse nella vittoria ottenuta nel 2016 contro Hillary Clinton. Riducendo la ricchezza personale a elemento di contorno. Non proprio irrilevante ma comunque secondario.

Tanto è vero che la sua campagna venne a costare parecchio meno di quella della rivale.

Messaggi freddi, urne vuote

Ciò che determinò l’exploit di quattro anni fa non era stata solo, o soprattutto, l’immagine di Trump come imprenditore/speculatore di successo, bensì la capacità di incarnare agli occhi dell’elettorato una drastica alternativa all’establishment di Washington. Per quanto calcolata potesse essere quella immagine, essa è stata percepita come autentica.

Con tutti i suoi mille limiti intellettuali, ed etici, Trump aveva però compreso assai bene su che cosa dovesse fare leva, per conquistare un così alto numero di consensi. Certo: al centro della scena c’era lui, con la sua ingombrante e narcisistica sicumera, ma allo stesso tempo c’era un’idea molto forte. Che creava una saldatura empatica con vasti settori della popolazione. Trump era sì la star, che svettava in cima alla piramide, ma sotto di lui la piramide c’era davvero: composta dagli innumerevoli mattoncini dei suoi singoli sostenitori.

Mike Bloomberg, al contrario, si è posto come un fuoriclasse che va a giocare in una nuova squadra (dai New Yorkers al Federal Team, per così dire) e si aspetta di essere acclamato per le sue performance precedenti. Senza rendersi conto che i nuovi, ipotetici tifosi lo considerano un estraneo. E nemmeno dei più simpatici.

La vera lezione che si può trarre dal suo tracollo è proprio questa: con i soldi puoi comprare la pubblicità, ma per quanto gli spot vengano studiati a puntino la loro efficacia è limitata, se non si accompagna a un “prodotto” che sia attraente in quanto tale.

Questo, sia chiaro, non implica che ci sia anche un valore assoluto nei messaggi che si lanciano e nelle tesi alle quali essi si riferiscono. Però ci ricorda in maniera perentoria un aspetto cruciale al quale non può sfuggire nessuna forza politica che aspiri a governare o, quantomeno, a imporsi su vasta scala: la legittimazione dei leader deve sempre fare i conti con le convinzioni e gli umori di chi dovrà avallarla.

Il celeberrimo e vincente “Yes We Can” di Obama era per molti versi una scatola vuota, però sembrava piena. Perché faceva perno sul We, sul Noi, su delle speranze in gran parte indeterminate ma quanto mai suggestive.

L’incolore e perdente “Mike Bloomberg 2020” (sorvolando sugli altrettanto pallidi Rebuild America, Fighting for our future, A new choice for Democrats, Mike Will Get It Done e I Like Mike) è stato nulla di più che un trionfo del packaging. C’era solo il marchio di fabbrica esibito come un sigillo di qualità, nel presupposto che bastasse. E c’erano i fiocchi e i fiocchetti degli spot a getto continuo.

Ma mancava il requisito più importante. Mancava qualcosa che agli acquirenti/elettori apparisse desiderabile e addirittura necessario: un’idea con la quale marciare, anziché un supermiliardario al quale inchinarsi.

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