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“Svolta”, “cambiamento”, etc. Urge una tassa sulle parole vuote dei politici

Gli slogan sono un tipico strumento della propaganda e non c’è da sorprendersi. Ma tra l’uso e l’abuso c’è una differenza decisiva: e la sanzione dipende da noi

Volevano tassare le merendine. Si accingono a tassare le bibite gassate.

Pur di raggranellare quattrini non escludono alcun balzello: e fino a qui pazienza, se ci fosse almeno la franchezza di dire che il vero e unico scopo è quello di tirar su qualche soldo, per attenuare un tantino l’indebitamento nazionale.

Invece no. Invece ci raccontano che l’intento è la salvaguardia della salute collettiva. E in particolare dei più piccoli. Che, poverini, se si rimpinzano di porcherie zuccheratissime diventano grassi, o persino obesi. E quindi si avviano a non vivere in buona salute. E quindi ancora, o prima o dopo, a diventare un costo aggiuntivo per il sistema sanitario.

Poverini loro, impoveriti tutti noi. Poveracci sia noi che loro.

Pretesto per pretesto, si può fare di meglio: una bella tassa sulle parole vuote dei politici. La base imponibile, diciamo così, sarebbe smisurata. E l’accertamento un gioco da ragazzi, se affidato a persone di buon senso e non ai soliti “amici degli amici”.

Basta sfogliare i quotidiani più noti, o farsi un giretto sui rispettivi siti. L’abbondanza regna sovrana e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Poi, magari, nel mentre ci si aggira tra le pagine stampate e le pagine online (immaginandosi di appartenere al neonato “Nucleo speciale GdF – Ufficio Insulti alla pubblica intelligenza”) si può cogliere l’occasione per alzare un po’ il tiro, e riflettere più a fondo.

A partire da un paio di domande: perché usano di continuo espressioni così generiche? Perché hanno così tanta difficoltà a dire chiaro e tondo che genere di società vorrebbero plasmare, e imporci, se dipendesse da loro?

Imbonitore avvisato…

«O questo è veramente un governo di svolta, che cambia le cose sul serio, o viene meno la ragione della sua esistenza».

La frase è di Nicola Zingaretti, o quantomeno così viene presentata, con tanto di virgolette, dal Corriere della Sera. Che sia davvero sua, o comunque in linea col suo pensiero, è d’altronde avvalorato da una serie di dichiarazioni precedenti. Tipo questa, di inizio settembre: «Bene questa svolta, ora è il tempo di cambiare l’Italia. Questo governo nasce nel Parlamento come il governo precedente, abbiamo fermato Salvini e il solo annuncio di questa fase sta facendo tornare l’Italia protagonista in Europa».

Ok: il termine “svolta” gli piace.

Così come, alla coalizione di prima, piaceva “cambiamento”.

E così come, dall’altra parte dell’Atlantico, Barack Obama arrivò alla Casa Bianca nel 2008 con il celeberrimo “Yes We Can”.

La caratteristica comune dovrebbe essere evidente: sono espressioni che non hanno nessun contenuto preciso. Nei casi nostrani indicano solo una discontinuità con il passato. Per arrivare a cosa? Boh.

In quello statunitense si tratta di una scatola vuota, allestita appositamente affinché ciascun sostenitore/fan la possa “riempire” con ciò che preferisce: “Sì, noi possiamo”. Possiamo cosa? Chissà.

Certo: gli slogan sono sempre esistiti e sono parte integrante della politica. Ma tra uno slogan degno di rispetto e una sparata da imbonitori di infimo rango c’è una differenza decisiva: il primo è la sintesi di un pensiero articolato, di cui si deve essere in grado di dare conto per filo e per segno; la seconda è una frasetta che è tanto suggestiva all’apparenza quanto vuota di sostanza.

Oppure, ancora peggio, è una formula di comodo che viene utilizzata a bella posta per distogliere l’attenzione degli astanti, del pubblico, dell’elettorato, dai veri obiettivi di chi la pronuncia.

La tassa sulle parole vuote dei politici è ovviamente uno sberleffo. Ma la “tassa” che può imporre ciascuno di noi è quella del voto. E più in generale del giudizio martellante e consapevole, che costringerebbe tutti i parolai truffaldini a sentirsi perennemente sotto esame: alla terza cazzata, se non addirittura alla prima, sarete marchiati in via definitiva e inappellabile.

Fate voi.

Noi siamo qui ad ascoltarvi. A osservarvi. A giudicarvi.

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