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Siamo liberal o talebani? Il New York Times nel Guinness del politically correct

Il pezzo del New York Times è firmato da due corrispondenti italiane. Forse l’illustre testata dovrebbe concedersi qualche riscontro incrociato…

The New York Times

The New York Times

Quanto ci scoccia fare i paladini di ciò che non amiamo. Ma quando chi non amiamo diventa puntaspilli, bersaglio di sassaiola, ci scoccia di più, perché mette dalla parte della ragione proprio chi si vuol colpire; gli dà – a gratis come si dice a Roma – argomenti per dirsi vittima o prendersi gioco degli avversari.

Il New York Times – testata liberal, anzi alfiere della stampa liberale – se ne esce con un articolo dal titolo Italy Foreign Minister Shares Blackface Images of His Summer Tan: Il Ministro degli Esteri italiano condivide immagini razziste della sua abbronzatura estiva. Dove si apprende che detrattori del nostro ne avevano confezionato fotomontaggi, caricature e meme, in cui lui appare in scene di noti film o repertori a fianco di personaggi di colore o a loro volta truccati da neri (vedi Totò ambasciatore dell’improbabile Katonga in Tototruffa ’62). Di Maio ne ha rimbalzato alcuni sulle sue pagine social, scherzandoci su. E giù la gazzarra (vedi https://www.romait.it/faccetta-nera-insopportabili-le-accuse-del-nyt-per-il-blackface-di-di-maio.html).

Vi chiediamo: cosa fareste voi, mettiamo personaggio pubblico, se qualcuno facesse circolare vignette ironiche su di voi? Se siete di spirito, non ingoiereste la mazza di scopa facendo gli offesi o i contegnosi; crediamo piuttosto che accogliereste lo sfottò e lo citereste con gusto voi per primi; come hanno sempre fatto i politici di rango. Ora non sappiamo quanto Di Maio abbia apprezzato, ma certo né i suoi detrattori né lui stesso hanno voluto caricare un’innocente vignetta “popolare” di significati altri e discriminatori. Che il NYT inalberi lo spauracchio del blackface informandoci che negli USA è “highly offensive”, oltraggioso (“Scusi, ma perché non si fa i fatti Usa?”) e impartendoci la lezioncina, è burbanzoso; ma – quel che è più grave – è intimidatorio.

Perché l’articolo fa anche del sarcasmo, concludendo che evidentemente in Italia non è così (“perhaps less so”), e si portano ad esempio programmi tv in cui si fa ancora l’imitazione di Louis Armstrong e Beyoncé; o una pubblicità Alitalia in cui un attore faceva Obama (se faceva Trump stava offendendo i bianchi?). Vi rendete conto?

Ma non basta. L’articolo senza accorgersene diventa a sua volta razzista, suggerendo che quel comportamento riflette il provincial worldview(vedute provinciali) del sud da cui il ministro proviene, “che non tiene in considerazione il dibattito globale sul razzismo” in atto nel resto del mondo.

Quest’è. Ora, l’episodio in sé, da solo, non peserà. Ma è cartina di tornasole di una inquietante deriva bigotta, oltranzista, censoria di senso opposto, di cui questo giornale si trova a prendere atto sempre più spesso; non importa se dettata dall’ansia di compiacere un’opinione (ma è un’opinione?) che si crede/teme diventi dominante – almeno in certi circoli – o per paura di prendere brutti voti (chi dalla suburra del web, chi – all’opposto – dai maîtres à penser del momento). La democrazia scopre la tentazione della censura; sulla parola, senza analisi. Non vieta, per ora; addita al pubblico ludibrio. Ma non era una prerogativa dei tiranni populisti?

La cultura popolare – non ci sembra solo italiana – ha sempre giocato con gli stereotipi; il più delle volte bonariamente, come tutti (si spera) facciamo tra amici. Sarà superficiale, ma innocuo; è un sorridere, o anche ridere, senza malizia.  O invece siamo per la teoria del vecchio Jorge de Il nome della rosa, sulla diabolicità del riso? Manteniamo, per favore, le cose nella loro giusta luce. Difendiamo piuttosto la democrazia e la dignità nostra e degli altri col buon esempio.

P.S.: A guardare bene, il pezzo del NYT è firmato da due corrispondenti italiane. E ripensando ad alcune tirate del passato, ci viene da riflettere che forse l’illustre testata dovrebbe concedersi – secondo la tradizione del giornalismo anglosassone a cui appartiene – qualche riscontro incrociato, per evitare che soggetti indispettiti o retorici usino quel nome prestigioso come tribuna per sfogarsi di partiti o personaggi che hanno sullo stomaco o che è di moda attaccare.  

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