Roma riparte dalla cultura: il 1° gennaio una città aperta e condivisa, intervista a Smeriglio
Con Capodarte, il Capodanno culturale della Capitale, la città sceglie di cominciare l’anno mettendo al centro le persone e i territori
Massimiliano Smeriglio
Il primo giorno del 2026 Roma non resta in silenzio. Musei aperti, spettacoli nei quartieri, biblioteche animate, piazze che tornano a essere luoghi di incontro. Con Capodarte, il Capodanno culturale della Capitale, la città sceglie di cominciare l’anno mettendo al centro le persone e i territori. Ne parliamo con l’assessore alla Cultura Massimiliano Smeriglio.
Assessore, a Roma il 1° gennaio è spesso stato un giorno “vuoto”. Quest’anno cambia tutto. Perché era importante farlo?
Perché Roma non può permettersi giorni morti, soprattutto simbolicamente. Il primo giorno dell’anno dice molto di come una città guarda a se stessa. Aprire musei, teatri, spazi culturali significa dire che Roma è viva, che la cultura è parte della quotidianità e non un evento per pochi.
Capodarte porta iniziative in tutti i municipi. Quanto conta uscire dal centro storico?
Conta moltissimo. Roma è una città enorme e complessa, e se la cultura resta concentrata solo in alcuni luoghi rischia di non parlare a tutti. Portare eventi nei quartieri significa riconoscere che ogni parte della città ha una sua dignità culturale e una sua energia.
Che tipo di risposta vi aspettate dai romani?
Mi aspetto curiosità, partecipazione, voglia di esserci. Capodarte non è pensato come un programma da consultare sul telefono, ma come un invito a uscire di casa, a camminare, a scoprire un concerto, una mostra, una lettura magari sotto casa.
Molti eventi sono gratuiti. È una scelta politica?
Sì, nel senso più alto del termine. L’accessibilità è un principio. La cultura deve essere fruibile senza barriere economiche, soprattutto in un momento storico in cui tante famiglie fanno i conti con difficoltà reali.
Capodarte è anche una sorta di manifesto per tutto il 2026. Che anno sarà?
Sarà un anno di trasformazioni concrete. Penso alla riapertura del Teatro Valle, al lavoro sui Fori Imperiali, al rilancio dei musei civici, alle biblioteche che tornano a essere spazi vissuti. Non annunci, ma processi già avviati.
Il Teatro Valle è una ferita aperta per molti romani. Che significato ha riportarlo alla città?
Il Valle rappresenta una storia complessa, ma anche una grande possibilità. Riaprirlo vuol dire restituire a Roma un luogo centrale per la produzione culturale contemporanea, con una visione pubblica e inclusiva.
Roma è spesso accusata di essere lenta. La macchina culturale funziona davvero?
I numeri e i fatti dicono di sì. Dietro Capodarte c’è un lavoro enorme di coordinamento, di operatori, di istituzioni che collaborano. Non è perfetto, ma è un sistema che oggi regge e cresce.
Le biblioteche sono uno dei cardini del vostro lavoro. Perché insiste tanto su questi luoghi?
Perché sono presìdi civili. Non sono solo posti dove si prendono libri, ma spazi di socialità, studio, formazione. In molti quartieri rappresentano un punto di riferimento quotidiano.
Il 1° gennaio che Roma vedremo, camminando per la città?
Una Roma accogliente, aperta, meno ripiegata su se stessa. Una città che non ha paura di mostrarsi viva anche nei giorni simbolicamente più difficili.
Se dovesse parlare direttamente ai romani, cosa direbbe?
Direi: uscite, partecipate, fate vostra questa città. La cultura funziona davvero solo quando viene abitata.
