Profezia Baba Vanga, quello che sta per succedere a fine anni spaventa anche gli scettici: le ultime sono state tutte azzeccate | Non ne usciremo

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Una profezia che corre sui social, il timore di un destino già scritto e una domanda inevitabile: quanto c’è di verificabile? Tra suggestioni, coincidenze e interpretazioni creative, il mito di Baba Vanga torna a prendersi la scena.
Ogni volta che una previsione apocalittica riaffiora nel dibattito pubblico, accade lo stesso: la narrazione si accende, la timeline si riempie di aneddoti e paragoni, e il confine tra cronaca e leggenda si assottiglia. Le presunte “anticipazioni” attribuite a Baba Vanga non fanno eccezione, perché uniscono fascino folklorico e ansie contemporanee. Il risultato è una miscela potentissima: parole vaghe, applicate dopo i fatti, diventano apparenti colpi di genio.
Il punto non è negare che il mondo cambi rapidamente: guerre, crisi climatiche, intelligenza artificiale, transizioni energetiche. Il punto è capire come funzionano queste storie. La frase “la fine del mondo come lo conosciamo” suona definitiva, ma raramente indica un evento puntuale: è un’immagine elastica che si adatta a qualsiasi shock. Proprio questa vaghezza alimenta l’idea che “le ultime sono state tutte azzeccate”, mentre un’analisi accurata mostra spesso interpretazioni retrospettive o attribuzioni postume di dichiarazioni mai documentate con rigore.
Perché ci crediamo: il meccanismo delle profezie che non invecchiano
La psicologia cognitiva offre una chiave semplice: cerchiamo pattern, vogliamo che il mondo abbia un senso e selezioniamo le informazioni che confermano ciò che già pensiamo. È il classico bias di conferma, che trasforma frasi generiche in presagi puntuali. Se una previsione parla di “grande crisi”, qualunque crisi, domani o tra cinque anni, sembrerà la prova del suo avverarsi. E quando una previsione non si realizza, di solito viene riformulata, spostata nel tempo, tradotta in metafora: la storia resta in piedi, muta pelle e prosegue.
Un altro tassello è la memoria selettiva. Ricordiamo i “centri” e dimentichiamo i “tiri fuori bersaglio”. Nel racconto popolare, la profezia sopravvive perché si appoggia a eventi già noti, salta i dettagli che stonano e accoglie quelli che tornano utili. L’autorità della fonte, poi, viene spesso costruita a posteriori: si accumulano aneddoti, si moltiplicano riferimenti, ma raramente compaiono documenti originali, date precise, testi integrali verificabili. In questo modo, la profezia rimane sospesa tra cronaca e mito, pronta a essere riattivata a ogni nuova emergenza.

Il dettaglio che sfugge: tra paura del futuro e bisogno di mappe
La forza di questi racconti non sta nella loro precisione, ma nella loro utilità emotiva: offrono una mappa, seppure approssimativa, dentro un presente instabile. È qui che nasce l’equivoco. Scambiamo il conforto della trama per conoscenza affidabile, e la paura per evidenza. La verità è che il nostro tempo cambia a un ritmo che spaventa, e la tentazione di leggere il futuro con schemi semplici è enorme. Tuttavia, senza un quadro fattuale, le profezie diventano solo lenti colorate: fanno vedere, ma non aiutano a capire.
Se c’è un insegnamento utile, è la pratica del dubbio ben informato. Chiedersi da dove viene una previsione, quali fonti la sostengono, come è stata tradotta, quando è stata scritta. Domande apparentemente fredde che smontano l’incantesimo. E ricordano un punto essenziale: il “non ne usciremo” è una formula narrativa, non una diagnosi. La storia recente dimostra che le società, pur tra contraddizioni e cadute, cambiano e si adattano. Il mondo di fine decennio sarà diverso, forse radicalmente, ma confondere scenari con destini inevitabili significa togliersi la possibilità di agire. E quella, più che una profezia, sarebbe davvero una resa.
