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Maxi riarmo UE, contro la “minaccia russa” di Putin

Parafrasiamo Macron, allora: chi può credere, in questo contesto, che la Francia di oggi sia molto più generosa e disinteressata di quella di Sarkozy?

Il Presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen presenta la “Bussola per la competitività”

Ursula von der Leyen (© Ec.europa.eu)

Avvinghiati a una tesi. Che è condivisa dai vertici UE e dalla generalità dei singoli capi di Stato o di governo. E che infatti è stata ripetuta anche da Macron nel suo intervento di mercoledì scorso, alla vigilia della riunione straordinaria del Consiglio Europeo in cui si è approvato il ReArm Europe sollecitato da Ursula von der Leyen.

Il piano di riarmo europeo

Quello che è stato definito “Piano” ma che in effetti, per ora, non ha pianificato nulla di operativo. Riducendosi invece a un accordo di massima sulla volontà di riarmarsi e sui metodi con cui finanziare l’importo complessivo, previsto in 800 miliardi.

«La minaccia russa – ha dichiarato il presidente francese, in un’occasione di alto profilo come il suo “discorso alla nazione” – è qui e riguarda i paesi europei, ci riguarda. La Russia ha già trasformato il conflitto ucraino in un conflitto globale. (…) Chi può dunque credere, in questo contesto, che la Russia di oggi si fermerà all’Ucraina? La Russia è diventata, nel momento in cui vi parlo e per gli anni a venire, una minaccia per la Francia e per l’Europa».

L’impianto retorico dell’Unione Europea è questo

La Russia sarebbe ostile all’Europa per motivi solo suoi, dall’avversione per le democrazie liberali alle smanie imperialistiche di Putin, e perciò mira addirittura a conquistarla militarmente. Se non subito, in un futuro abbastanza prossimo.

Fase uno: soggiogare le nazioni limitrofe, come i Paesi baltici o qualche altra repubblica dell’ex Unione Sovietica. Fase due: sottomettere, con la forza degli eserciti, gli Stati occidentali dell’UE.

Per Macron & C. non si tratta affatto di un’ipotesi. Ma di una verità palese e di un pericolo incombente.

Un “dato di fatto” che giustifica tutto il resto, a cominciare dall’appoggio a oltranza che si vorrebbe assicurare all’Ucraina. Appellandosi a un’altra formula retorica: quella della pace “giusta e duratura”.

A senso unico, fino al grottesco

Questo tipo di approccio ha simultaneamente molti scopi. Accomunati dalla pretesa di far pendere la bilancia da una sola parte: la Russia ha solo torti, l’Ucraina ha tutte le ragioni. L’Ucraina e, per estensione, l’Unione Europea.

Il secondo testo che è stato approvato dal Consiglio Europeo, con l’unica eccezione dell’Ungheria, fissa le sue cinque condizioni per arrivare alla pace. E il quinto punto recita che l’eventuale accordo “deve rispettare l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina”.

Una visione del tutto unilaterale. Che non tiene nel benché minimo conto né la situazione bellica sul campo, né l’avvio di un’intesa diretta fra Trump e Putin.

Piaccia o non piaccia, la verità oggettiva è che nel conflitto in corso la Russia ha ormai acquisito un vantaggio incolmabile, destinato ad aumentare nel caso di un proseguimento della guerra. Tanto più adesso che gli USA hanno tolto a Zelensky ogni tipo di supporto: dalla fornitura di armi ai finanziamenti, dal sostegno diplomatico alla condivisione delle informazioni di intelligence.

Che senso può avere, quindi, ostinarsi a parlare di “integrità territoriale” dell’Ucraina? Quale credibilità si può riscuotere, intimando alla Russia di rinunciare a ciò che ha conquistato finora?

E soprattutto: perché mai Putin dovrebbe piegarsi a questi diktat, ora che si trova a un passo dall’ottenere ciò che voleva? Ossia impedire che l’Ucraina perdesse la sua neutralità originaria, trasformandosi in una testa di ponte dell’Occidente piazzata a ridosso dei confini della Russia.

Le vere finalità, dietro la facciata

Bisogna risalire a ciò che è avvenuto prima del 24 febbraio 2022, quando ha preso il via la cosiddetta “operazione militare speciale”. Ma non stiamo parlando solo della Crimea e del Donbass. Non soltanto di Mosca e di Kiev.

La prospettiva va allargata, arretrando di alcuni altri anni e spostandosi in un diverso quadrante, geografico e strategico. Quello dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente.

La stagione è quella delle “primavere arabe”. Che a loro volta riprendevano le “rivoluzioni colorate” con cui si cercò di democratizzare alcuni degli Stati post sovietici. La Georgia, il Kirghizistan, la stessa Ucraina.

Dove “democratizzare”, si intende, significa portare stabilmente nazioni e popoli nell’orbita occidentale, non solo per farne degli alleati più o meno compiacenti ma per indurli a conformarsi ai modelli liberali. O se preferite liberisti.

Metodi spicci

Lo schema generale era avviare delle sollevazioni che apparissero spontanee, ispirate da un empito di libertà e realizzate in modo non violento. O quantomeno non troppo sanguinario. Lo schema generale non era l’unico, perché a volte il tiranno di turno non vuole saperne di ritirarsi in buon ordine. E allora bisogna costringerlo comunque. Con ogni mezzo.

Come avvenne in Libia, nel 2011. Un’aggressione sistematica che sfociò nell’uccisione di Gheddafi, nel giro di sette mesi, e che venne condotta a suon di incursioni aeree e di lancio di missili.

Chi diede inizio all’attacco? La Francia. Ufficialmente, figurarsi, per tutelare la popolazione civile dalle sopraffazioni del Rais. Di fatto, per motivazioni assai più prosaiche. E tutt’altro che idealistiche.

All’epoca – non un secolo fa, ma meno di quindici anni – andò in questo modo. I proclami dicevano delle cose, le analisi ne svelavano delle altre.

Parafrasiamo Macron, allora: chi può credere, in questo contesto, che la Francia di oggi sia molto più generosa e disinteressata di quella di Sarkozy?

E come la Francia la Germania. E l’Inghilterra. E…

Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia