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“Mafia capitale”. Ergastolo ostativo. Pessimi segnali nella lotta al crimine

Due sentenze che vanno considerate nel loro insieme. E ricollegate a tante altre. Fino alla domanda fondamentale: le nostre leggi sono in grado di stroncare la delinquenza?

In rapida successione. Per una coincidenza, certo: ma una di quelle coincidenze temporali che rendono evidente l’esistenza di un problema generale. E cruciale. Un problema che per prima cosa andrebbe messo, e tenuto, sotto i riflettori della politica e della cosiddetta opinione pubblica. Per poi affrontarlo a muso duro e andando dritti al sodo. Al posto dei bei discorsi sulla nostra “splendida” civiltà giuridica, gli effetti concreti che ne derivano.

In rapida successione sono arrivate le sentenze della Cassazione sulla ormai ex “Mafia Capitale” e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. In entrambi i casi, due segnali di arretramento dal rigore precedente. Decisioni che magari avranno anche una loro fondatezza, ma che lasciano ugualmente perplessi per una serie di motivi.

Il primo è che, a parità di normative, altri magistrati l’hanno vista diversamente: sulla vastissima rete di corruzione che si era (era?) sviluppata a Roma, con Massimo Carminati e Salvatore Buzzi a tirare i fili, i giudici di appello e lo stesso Procuratore generale della Cassazione hanno ritenuto che si trattasse di un’organizzazione di tipo mafioso. Quanto all’ergastolo ostativo, esiste dall’inizio degli anni Novanta ed è comunque sconcertante che ci siano voluti quasi tre decenni per “scoprire” che è in contrasto con il principio della rieducazione contenuto nell’articolo 27 della Suprema Carta (su cui ci siamo già espressi dopo la sentenza della Corte Europea).

Il secondo motivo, ancora più importante, è quello ben sintetizzato nel proverbiale “a mali estremi, estremi rimedi”. In nome di una presunta superiorità morale, lo Stato si auto costringe ad affrontare la criminalità organizzata ad armi assolutamente impari: mentre le mafie, da quelle autoctone a quelle di importazione, ricorrono a qualsiasi mezzo, le pubbliche istituzioni si legano le mani da sole. Inseguendo un perfetto equilibrio tra le dure necessità collettive della repressione e il delicato rispetto dei diritti individuali, confondono un duello tra gentiluomini con una rissa da strada. O con una guerra senza esclusione di colpi.

E le mafie, intanto, sono sempre lì

Sulla peggiore delle ipotesi sorvoliamo, per oggi. Si tratterebbe di ammettere che lo Stato – ovverosia l’establishment che lo controlla – abbia un suo tornaconto nel lasciare che le mafie continuino a esistere. Un sospetto assai meno peregrino di quel che possa sembrare ai più, ma semmai ci torneremo in un’altra occasione.

Limitiamoci all’ipotesi “migliore”. Diciamo che la situazione attuale scaturisce da un atteggiamento errato. Talmente errato che diventa ottuso. Nell’ansia di rimarcare la propria somma correttezza ci si avviluppa in una ragnatela di vincoli autolesionistici. Sottigliezze procedurali che sfociano negli annullamenti per vizi di forma. Lungaggini suicide, se non preordinate, che portano alla prescrizione. Opzioni e cautele che moltiplicano le scappatoie, e che trasformano i processi in una specie di lotteria: ti è andata male? Ritenta, sarai più fortunato.

Vedi i benefici del rito abbreviato. Vedi i tre gradi di giudizio come prassi costante. Vedi l’abbaglio del giudice “terzo” tra la pubblica accusa e i difensori degli imputati. Laddove, invece, tutte e tre le parti in causa – avvocati compresi – dovrebbero avere come scopo irrinunciabile la punizione dei colpevoli.

L’errore, se di errore si tratta, è nel non stabilire una netta linea di demarcazione, e quindi un diverso trattamento processuale, tra due categorie che non sono affatto assimilabili: da un lato quei cittadini che violano la legge in via occasionale, ancorché gravissima come ad esempio nei cosiddetti femminicidi; dall’altro i criminali incalliti che agiscono all’interno di bande organizzate e che, proprio per questo, si pongono come forze straniere che si sono insinuate nella comunità nazionale e la erodono dall’interno.

Ai primi si può riconoscere il diritto a un’accurata valutazione delle circostanze. I secondi vanno stroncati nel modo più brutale e definitivo. E se le leggi odierne non lo consentono, quelle leggi sono da cambiare.

Se l’obiettivo è togliere di mezzo le mafie, sia vecchie che nuove, il criterio è elementare: ciò che ostacola il raggiungimento dello scopo va rimosso. Senza perdersi in astrazioni sui delinquenti da rieducare: quelli che oggi si trovano al 41bis, o che ci andranno in futuro, siano già contenti così. E accendano un cero per la mancanza della pena di morte.

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