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Lettere sulla creatività, Fëdor Dostoevskij‏

Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi

Gianlorenzo Pacini, docente di Letteratura russa all’Università di Siena, propone una selezione di lettere dal vasto epistolario di Fëdor Dostoevskij, scritte a parenti, amici, colleghi, lettori, dalla quale emergono i principi della straordinaria creatività di questo romanziere.

E’ difficile distinguere il Dostoevskij artista, quello dei romanzi, e il Dostoevskij ideologo, quello che parla in prima persona. Durante la creazione di qualunque personaggio, situazione o trama dei suoi romanzi, Dostoevskij scruta la sua anima per scrivere, considerando se stesso la fonte della propria scrittura; questo fa di lui uno scrittore sempre autobiografico, anche quando le storie che racconta non sono le sue personali storie.

Quelle proposte da Pacini coprono un arco di tempo che va dal 1838 al 1880. Parlano del processo di creazione artistica e raccontano quegli avvenimenti che più hanno segnato la vita rocambolesca e inquieta di Dostoevskij, quei fatti e circostanze che si radicarono saldamente nella sua coscienza e che furono il combustibile di tutte le sue opere. Tra questi l’epilessia che lo accompagnò per tutta la vita, descritta dettagliatamente in “L’idiota” e in “I fratelli Karamazov”; l’ossessione sfrenata per il gioco d’azzardo che propone in “Il giocatore” e i conseguenti debiti; la finta fucilazione nella fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo; la condanna ai lavori forzati in Siberia; l’incontro con la moglie di un decabrista che gli regalò un volume del Vangelo e la conseguente scoperta ed esaltazione della figura di Cristo; l’incontro con i delinquenti comuni e la rivelazione della loro umanità indipendentemente dai delitti compiuti.

Le prime lettere sono indirizzate al fratello Michail, cui Dostoevskij fu legatissimo per tutta la vita. Una di queste fu scritta il 22 dicembre del 1849 dalla fortezza di Pietro e Paolo di Pietroburgo, dove lo scrittore era stato rinchiuso per la sua partecipazione ad un circolo furierista.

Racconta al fratello la tortura della finta esecuzione inflitta a lui e ad altri giovani e scrive: “Io ero il sesto della fila e siccome chiamavano a tre per volta io facevo parte del secondo terzetto e non mi restava da vivere più di un minuto…Nell’ultimo istante tu, soltanto tu, occupavi la mia mente…”. Poche righe dopo aggiunge: “Fratello, io non mi sono abbattuto, non mi sono perso d’animo. La vita è vita dappertutto; la vita è dentro noi stessi, e non in ciò che ci circonda all’esterno” .

In condizioni di vita terribili alla fortezza di Omsk tra pulci, pidocchi, scarafaggi, cibo insufficiente, freddo di giorno e di notte, lavoro massacrante, conosce i prigionieri comuni: “Tu non ci crederai, ma c’erano dei caratteri profondi, forti, stupendi, e che gioia mi dava scoprire l’oro sotto la rude scorza… Quante storie di vagabondi e di briganti…Mi basteranno per volumi interi”.

In un’altra lettera del 1854, indirizzata questa volta alla moglie del decabrista che gli aveva regalato il Vangelo, parla di Cristo come libertà e amore che si realizzano contemporaneamente, giacché l’uno è condizione dell’altra e viceversa. Discepolo dell’insegnamento di Cristo, in un passo dei suoi appunti, datato 16 aprile 1864, cioè il giorno successivo alla morte della prima moglie, il cui cadavere sta vegliando, egli scrive: “…L’uso più elevato che l’uomo può fare della propria personalità, della pienezza di sviluppo del proprio io, consiste… nel consegnarlo completamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve. E questa è la massima felicità.”

Una raccolta di lettere e degli elementi essenziali del pensiero di Dostoevskij, i quali dimostrano in sostanza che siamo autenticamente vivi solo nella crisi e che l’uomo è un mistero che bisogna risolvere; quel mistero alla cui esplorazione Dostoevskij aveva dichiarato, appena diciottenne, di voler dedicare la propria vita ”…perché voglio essere un uomo”.

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