Il millenario pregiudizio che vuole la donna in un angolo: da Moebius a un kintsugi di luce
Prima dei re, prima dei condottieri, prima persino degli dei barbuti, furono le donne a reggere il peso del cielo
Donne al lavoro, pexels, karola g
C’è un libretto, pubblicato nel 1900 dal neurologo P. J. Moebius oggi più citato che letto, che porta un titolo destinato a rizzare i capelli anche a chi non ha più capelli da rizzare: “L’inferiorità mentale della donna“. Un’opera minore, per qualità e per visione, ma non per conseguenze, perché i libri, quando sbagliano, sbagliano come certe frane in montagna, con lentezza prima e con fragore poi. Eppure è da qui, da questo insulto rilegato in pelle, che conviene cominciare.
Mentre lo leggo, o fingo di leggerlo, sento in me una voce più antica che affiora, una voce che non è teoria ma cicatrice: ”mi si staccava la pelle dalle ossa… e nessuno vedeva”. Non è la mia pelle soltanto, è l’epidermide della creazione, uno strato che resiste da secoli, un tessuto collettivo che si tende e si lacera per ogni donna che ha chinato la testa per stanchezza, non per dovere. La violenza non è quel ceffone che arriva… non solo… è l’ombra che rimane quando il ceffone è passato, l’alone che si posa sulle narici come un miasma che non smette di respirarti.
Olympe de Gouges avrebbe sorriso amaro davanti a Moebius… eppure avrebbe riconosciuto che non inventò nulla, lui… registrò soltanto, come un ragioniere della miseria, il millenario pregiudizio che voleva la donna un angolo, mai il centro, uno spigolo da cui spostarsi per non inciampare. È curioso, perché la storia, quella che non si piega ai manuali, ci racconta tutt’altro.
Prima dei re, prima dei condottieri, prima persino degli dei barbuti, furono le donne a reggere il peso del cielo. Le prime società matriarcali, come ricorda il bel volume Eschilo d’Atene di George Thomson dedicato alle origini drammaturgiche e rituali della civiltà greca, avevano nella donna la misura del tempo e della vita: la madre come principio; la madre come custode; la madre come legge non scritta.
Quando poi vennero i greci e con loro Eschilo, Sofocle, Euripide… l’immagine della donna si fece più complessa. Clitemnestra che uccide il marito; Antigone che disobbedisce ai sovrani; Medea che abbatte il mito dell’amore sottomesso. Non erano figure inferiori… erano tragiche, cioè enormi.
Non posso allora non pensare a quella lunga stagione buia che fu chiamata “caccia alle streghe”, e che di stregonesco non aveva nulla se non la fantasia maschile impaurita dal potere delle donne. Fu un dispositivo, direbbe la filosofia che verrà, un ingranaggio disciplinare che prese il corpo femminile e lo trasformò in prova, sospetto, delitto. Lì, nelle piazze fumanti e negli interrogatori scritti con grafia feroce, la donna divenne laboratorio dell’obbedienza… si colpiva la ”strega” per insegnare il silenzio a tutte. Non era ignoranza… era amministrazione del terrore, economia della sottomissione.
I post-strutturalisti l’avrebbero chiamata produzione di soggettività docili, controllo, archivio della paura travestita da morale. In quelle fiamme non bruciavano le erbe o le pozioni… bruciava l’idea stessa di una donna che potesse essere centro di conoscenza, di cura, di comunità. E quel rogo, pur spento, lancia ancora oggi la sua ombra… un monito sottile che ci percorre la schiena, come a ricordarci che ogni volta che una donna parla troppo, osa troppo, sa troppo… qualcuno, da qualche secolo remoto, si chiede ancora se non sia il caso di chiamarla strega.
Un filo di seta malevola cominciò a intrecciarsi nella trama della civiltà… da potente, la donna divenne pericolosa; da pericolosa, venne dichiarata debole… e dalla debolezza alla subordinazione fu solo questione di calligrafia giuridica.
Mi chiedo, mentre scrivo, quante generazioni di donne abbiano respirato la stessa aria storta: mia madre, mia nonna, le donne che non ho conosciuto e che pure camminano nel mio sangue, quelle che hanno taciuto perché parlare era un lusso, e quelle che hanno parlato e sono state punite perché il silenzio era un dovere. Mi chiedo perché ancora oggi, anche quando le sentenze ci danno ragione, la sensazione sia di essere considerate ospiti nella casa della società, mai proprietarie, mai legittime.
Da Israele a Roma, dal Medioevo dei padri della Chiesa al Rinascimento dei pittori uomini che ritraevano donne mute, il grande equivoco si perpetuò. Omero mise l’astuzia nelle mani di Penelope. Dante senza Beatrice non avrebbe scritto neppure due canti. Shakespeare affidò alle donne la forza drammatica delle sue tragedie. Rilke vide nella donna un frutto, qualcosa che cresce verso dentro.
Eppure, un mondo nutrito dalle donne ha costruito la diminuzione delle donne. Ha costruito la loro estinzione lenta. Perché per estinguersi non serve scomparire… basta non essere viste. E allora ritorno alla mia voce, mi torna addosso la luce gialla di certe stanze dove una donna impara a respirare piano per non dare nell’occhio, dove la violenza non è un evento ma un clima, un odore, una postura del corpo.
Camminiamo con la schiena un po’ piegata… non per abitudine ma per eredità. Perché la narrativa che ci ha costruite ci ha anche limitate, come un vaso di terracotta che teme la crepa più della sete. E nel nostro secolo pieno di tecnologie, di intelligenze artificiali e di stupidità naturali, continua ad accadere. Continua ad accadere che alle donne si chieda di essere esemplari e riconoscenti, mai centrali.
Che si dica “parità”, ma si pratichi “sopportazione”. Che la donna non sia più un mistero, ma non sia ancora un’evidenza. La verità è che la donna non è mai stata inferiore. Semmai, è stata contenuta. E ciò che si contiene, prima o poi, straripa. E forse siamo a quella vigilia… una vigilia che assomiglia al respiro trattenuto delle madri, delle figlie, delle donne che non vogliono più essere il margine della pagina ma la pagina intera.
Una vigilia di corpi che riprendono forma, di voci che si rialzano da sotto la pelle, di una memoria comune che finalmente smette di ritrarsi. Di un kintsugi di luce che riempie le crepe. E forse quella vigilia non è neppure certa, perché il mondo… quello fatto di microfoni, palchi, dicasteri, associazioni infaticabili e sigle che si moltiplicano come scuse… sembra usare la voce delle donne senza restituire alle donne una voce. Si parla molto, ovunque, in ogni direzione… conferenze, convegni, tavole rotonde, rubriche, slogan, giornate mondiali che spuntano come fiori di plastica in un deserto che resta deserto.
Si celebra la “giornata contro la violenza NELLE donne”, mentre ancora non esiste davvero un linguaggio che le ascolti. Tutti ne parlano, sì… ma parlare non è capire. Parlare non è vedere. Parlare non è cambiare. A volte sembra la liturgia laica dell’ipocrisia… un rito che consola chi lo pronuncia, non chi lo subisce.
E così le istituzioni recitano, le associazioni proclamano, i governi annunciano come fossero trombe in una città del sole che non esiste, non ancora… un’utopia stinta, una promessa sempre rimandata, un orizzonte che brilla solo nei discorsi.
Perché in realtà nessuno, davvero nessuno, ha il coraggio di guardare a fondo la radice dell’ingiustizia. E allora quelle parole, invece di guarire, diventano un velo… coprono la ferita, non la curano. Proteggono gli occhi di chi guarda, non il corpo di chi sanguina. È questo che fa più male… la differenza tra ciò che si dice e ciò che si permette, tra l’eco che risuona e il silenzio che rimane. L’ingiustizia, intanto, continua a camminare scalza nelle nostre case, nei tribunali, nei corridoi del potere.
E noi, da secoli, continuiamo a respirare piano per non disturbarla. Vorrei che nessuno fra cent’anni, debba più iniziare un articolo citando Moebius. Perché, se non altro, significherà che la frana si è finalmente arrestata. E che il cielo, da reggere, lo reggiamo insieme.
Antonella Multari
