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Il fascino indiscreto della cella. Una riflessione sulla filosofia medievale

La filosofia medievale è carica di genio, spiritualità e ricerca intellettuale, basta con i pregiudizi sull’ “epoca buia”

Sant'Agostino nello studio, dipinto di Carpaccio

Sant'Agostino nel suo studio (1502), dipinto di Vittore Carpaccio

Normalmente siamo soliti associare al Medioevo, l’idea di un’epoca di decadenza e declino della cultura occidentale ed europea. Stretti tra la grande stagione della cultura antica e la grande stagione del Rinascimento, i secoli medioevali, fin da Petrarca, hanno ereditato l’appellativo di “bui”.

Questo atteggiamento, che pure ha cominciato ad essere scalzato dal Romanticismo in poi, almeno a livello dell’alta cultura, ha continuato, tuttavia, ad esercitare il suo peso, almeno per molti di noi. Niente di più sbagliato, se si riflette sul fatto che due autori di livello supremo come Agostino e Dante, possono essere collocati all’inizio e alla fine dei circa mille anni di cultura medievale.

La filosofia medievale, uno sguardo-attraverso

Ne era convinto uno degli intellettuali italiani più significativi degli ultimi decenni, Umberto Eco, che aveva saputo gettare nella cultura e nella filosofia medievali uno “sguardo-attraverso” (per riprendere il noto titolo di un libro che Emilio Garroni aveva dedicato all’estetica).

Non solo perché una buona parte degli interessi filosofici e scientifici di Eco è riconducibile al filone medievale, ne è testimonianza il ponderoso volume dal titolo “Scritti sul pensiero medioevale” pubblicato da Bompiani nel 2012. Ma anche perché il romanzo di Eco di maggior successo – quello a cui egli deve la sua notorietà internazionale – “Il nome della rosa” (1980) è, come tutti sanno, a carattere e tematica medievali.

Venti anni dopo, Eco ripeté l’operazione, regalandoci con “Baudolino” (2000), un’altra storia pensata e calata nella stessa epoca. Eco sapeva bene come i secoli medievali fossero attraversati da tensioni spirituali e culturali sconvolgenti. Si tratta dell’epoca di maggior vitalità della cultura cristiana. Nello stesso tempo, è una fase in cui l’Europa reinventa sé stessa, stabilendo una continuità con il passato e cominciando a preparare il futuro.

Nella grande mente di Tommaso d’Aquino, Aristotele si incontra con il Vangelo ed è, ancora una volta, una grande pagina di cultura che l’Occidente può rivendicare di aver dato a sé stesso e al mondo.

La parola di un maestro, Heidegger

Se proprio si è in cerca di auctoritates che, in controtendenza con buona parte della cultura europea del passato, diano piena credibilità filosofica al Medioevo, basti ricordare il nome di Martin Heidegger. Il quale, non è una novità, non era un appassionato dell’illuminismo (e, conseguentemente, della democrazia). Non solo, ma che dedicò la sua tesi di dottorato a “Le Categorie e la dottrina del significato in Duns Scoto”.

Il giovane Heidegger, dunque, si era filosoficamente “fatto le ossa” su uno dei maestri più significativi del pensiero medievale – Scoto era il Dottore Sottile – in cui il rapporto con Aristotele è critico, ampio, sfaccettato, complesso.

Quando, poi, pubblicato “Essere e tempo” nel 1927, Heidegger è balzato alla ribalta come uno maestri del pensiero filosofico europeo, gli si pone il problema di spiegare l’adesione al nazismo del ’33 e l’assunzione del rettorato a Friburgo. Così, nel secondo dopoguerra, egli tira fuori un altro dei suoi testi più geniali, la “Lettera sull’umanismo” della seconda metà degli anni quaranta.

Spiegando la sua contrarietà di principio a ogni umanismo, e anche all’esistenzialismo, sornione come sempre, egli ha una micidiale zampata anche contro il classicismo umanistico e rinascimentale.

L’umanesimo rinascimentale, in fondo, egli ci spiega, è una ripresa dell’umanesimo latino, il quale era modellato sulla tarda grecità – non su quella vera, autentica, della grande epoca presocratica tra VII e V secolo a. C. L’umanesimo si basa, dunque, su un fraintendimento totale e la “barbarie della Scolastica gotica del Medioevo” è soltanto “presunta” (“Segnavia”, Adelphi, p. 274). Ipse dixit.

Due autori totali: Dante e Agostino

Trascorso il 2021, ossia l’anno in cui si è celebrato il settimo centenario della morte di Dante Alighieri, che per fortuna in Italia non è mai stato dimenticato, è giusto continuare a riproporsi l’interrogativo sul valore della cultura medievale. Dante appartiene in toto al Medioevo, non solo per il modo di organizzare il discorso culturale e filosofico, ma per il modo stesso di funzionare della sua mente.

Che poi egli prepari e prefiguri l’epoca futura, che il livello qualitativo della sua poesia assuma valore e significato universali, che egli trascenda e scavalchi i caratteri specifici della sua epoca, è un fatto che lo accomuna ad ogni grande manifestazione della cultura umana, non soltanto occidentale.

Abbiamo, dunque, i nomi di Agostino e Dante, ad esemplificare alcuni degli spiriti più alti, nati nell’ambito della cultura medievale. Come sempre, per entrare nella specificità di un discorso culturale, nei caratteri costitutivi di un periodo, nella mentalità di un’epoca, c’è bisogno di guide solide, di studiosi di grande e comprovata esperienza.

Per Agostino, una pubblicazione più di altre è in grado di rendere un servizio eccellente. Si tratta della monografia che Peter Brown ha dedicato al vescovo di Ippona, pubblicata in italiano da Einaudi. Studioso di eccellente solidità e robustezza, docente a Princeton, Brown ha la capacità di guidarci nei segreti e nei meandri del pensiero e della vita di Agostino, di quel filosofo che era la stella polare di Hannah Arendt, quando articolava in modo positivo il concetto di amore.

Per quanto concerne Dante, si diceva di come la cultura italiana non lo abbia mai dimenticato. Oltre ai numerosi libri divulgativi usciti nel settimo centenario della morte del grande poeta, la ricerca critica autentica comincia con Francesco De Sanctis e Benedetto Croce per arrivare agli studi di Natalino Sapegno e Giorgio Petrocchi, fino ai dantisti di razza odierni, di cui vale la pena ricordare Gennaro Sasso e Marco Santagata, Giorgio Inglese, Luca Serianni e Roberto Mercuri, senza dimenticare un grande nome della critica novecentesca come Erich Auerbach.

Il bilancio di un’epoca

Ma che succede, se ricerchiamo sulla cultura filosofica medievale uno sguardo complessivo, integrale, un’occhiata totale? Anche in questo caso, non mancano gli studi e gli strumenti di prim’ordine. Basti pensare all’ormai classico volume di uno studioso del calibro di Étienne Gilson, intitolato “La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo” (ed. it. Bur).

In anni recenti, è uscito uno strumento più agile che, a fronte delle quasi mille pagine di Gilson, si contiene entro le cinquecento, visto il livello di disinteresse che investe la filosofia nell’ambito della cultura contemporanea o di ciò che resta di essa, in un tempo come il nostro. Mi riferisco alla “Storia della filosofia medievale. Da Boezio a Wyclif” di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Massimo Parodi, uscita in varie edizioni per Laterza negli ultimi decenni. Entrambi docenti all’Università di Milano, i due autori costruiscono un discorso solido, esaustivo, pur nella capillarità della loro competenza specialistica.

Ormai con la mente sgombra dalla cattiva equazione che vorrebbe associare Medioevo e cristianesimo alla barbarie e alla noia, attraversiamo le dispute, le contese, i dibattiti, le esplosioni del genio medievale. Abbagliati dal suo fascino autentico, dalla poesia con cui uomini tanto distanti da un’epoca come la nostra, attraversarono la singolare avventura dell’esistenza.